Il giallo dei vetrini distrutti: «È stato un errore madornale»

Il j’accuse del pm Gemma Gualdi: «Chi diede l’ordine di eliminare le prove nell’ottobre 2000?». Paola Macchi, madre di Lidia: «La sparizione di quei reperti, oltre che la verità, danneggia anche l’imputato»

«Perché tutti i reperti distrutti erano indicati da un numero inerente il procedimento, mentre quelli relativi all’omicidio Macchi recavano anche la scritta Lidia Macchi per esteso?».

E ancora: «Chi diede l’input di distruggere tutti i reperti relativi al periodo compreso tra il 1971 e il 1987 contenuti nell’ufficio corpi di reato?». E perché, visto che la distruzione avrebbe dovuto riguardare esclusivamente casi chiusi, i preziosi reperti relativi all’omicidio di Lidia Macchi, a cominciare da quegli 11 vetrini che avrebbero potuto portare al Dna dell’assassino, sono stati distrutti? Sono state incalzanti e decise le domande del procuratore generale di Milano
durante l’udienza dell’altro

ieri che vede
, 50 anni di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia Macchi sedere come imputato davanti alla Corte d’Assise presieduta da
con l’accusa di aver assassinato la studentessa varesina di 20 anni con 29 coltellate nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987. Vetrini distrutti, la borsa che Lidia aveva quella notte e che fu ritrovata accanto al cadavere, addirittura il sedile della Fiat Panda della ragazza trovato leggermente sporco di sangue, tutto distrutto o perso. E il pm l’altro ieri ha chiamato a testimoniare
, dirigente responsabile della sezione penale del Tribunale di Varese sino al 2009 su quanto accaduto. Ciccia ha parlato di «errore madornale», partito con un’ordinanza datata 13 ottobre 2000 firmata dall’allora gip di Varese
. La distruzione di quei reperti preziosi oggi sottrae moltissime armi alla giustizia: «Danneggia noi – ha detto
, la madre di Lidia Macchi in una pausa dell’udienza – che vogliamo soltanto arrivare alla verità e danneggia anche l’imputato: con quei reperti, con il Dna, oggi sapremmo se è colpevole o se è innocente».

Gualdi l’altro ieri, e con lei anche il presidente Muscato, ha incalzato il teste: «Perché soltanto i reperti relativi al caso Macchi avevano il nome della vittima scritto per esteso?». E Ciccia ha risposto: «è un’anomalia». E come è possibile che «pur avendo il nome Lidia Macchi scritto sui reperti gli stessi siano stati distrutti lo stesso? Tutti credo sapessero di quale caso si trattava. Tutti sapevano che il caso era ancora aperto. E allora perchè?». Il pm inarrestabile: «perché scrivere quel nome?». E Ciccia ha detto una cosa importante: «se dovessi azzardare un’ipotesi, ma è un’ipotesi mia, direi che si voleva far sapere a qualcuno esterno all’ufficio che quei reperti erano stati distrutti». Oppure quelle scritte «potrebbero essere state apposte successivamente alla distruzione dei reperti nel tentativo di nascondere un errore madornale», ha detto Ciccia. E Gualdi ha sottolineato come in uno dei contenitori con la dicitura Lidia Macchi fosse stato trovato del filo elettrico reperto mai collegato all’omicidio della giovane scout: «mi immagino – ha detto Gualdi – lo stato d’animo di chi attende giustizia per il reato commesso con quel filo elettrico». Alla domanda su chi diede l’input al gip di eliminare quei reperti Ciccia risponde: «l’ufficio potrebbe aver agito in autonomia. C’erano due funzionari responsabili». Secondo la prassi, però, la procura sarebbe dovuta essere informata della “pulizia” in atto: «e allora perché nel 2006 l’allora procuratore di Varese
costituì un pool per i cold case dichiarando di voler dare impulso anche al caso Macchi partendo dall’analisi dei reperti quando i reperti erano stati distrutti 6 anni prima?».