La mia India è racchiusa nella testa di Gheeta su me

Diario di viaggio - La nostra Francesca Vanoli a Jagatpura

Pubblichiamo oggi la prima puntata di uno speciale diario che la nostra collaboratrice Francesca Vanoli terrà per noi durante la sua permanenza come volontaria a Jaipur. Francesca, 25 anni, studentessa gaviratese di filosofia all’Università Cattolica di Milano, è volata in India per aiutare le donne di quella regione a guardare al futuro imparando la lingua inglese. Lavorerà tre settimane dopo essere stata ammessa, tra centinaia di aspiranti, al programma di schoolarship “Women Emprovement”, che mira a dare un futuro e soprattutto garantire autonomia alle donne indiane che vivono in condizioni disagiate.

Erano le tre di notte di domenica scorsa quando siamo atterrate, Stefania e io, all’aeroporto internazionale di Jaipur. Entusiasta di essere finalmente arrivata dopo 14 ore di viaggio, non vedevo l’ora di scoprire l’India che faccia avesse. Dall’aereo, qualche ora prima, scendendo allo scalo di Abu Dhabi avevo osservato una città nuova e piena di luci, fatta di quartieri estremamente regolari e strade tutte perpendicolari tra loro che si intersecavano con rotonde a perdita d’occhio.

Tutte le vie finivano nel nulla del deserto, o in mare. Jaipur dall’alto non mi aveva dato quell’impressione rassicurante, bensì sembrava che un gigante avesse sparso qua è là poche manciate di lucine. Solo la zona attorno all’aeroporto pareva avere qualche strada ben illuminata. Il viaggio verso il volunteer housing è stato tranquillo e non ci ha fatto vedere che qualche fila di negozi serrati. Siamo andate a dormire quando ormai la città si era già rumorosamente svegliata. Dopo un pranzo indiano a base di riso, specie di melanzane speziate chiamate “dita di donna” e chapati eravamo finalmente pronte ad esplorare la zona con la scusa di cercare un bancomat. L’unico funzionante stava dall’altra parte di quattro corsie impazzite di camion variopinti, bus affollati, macchine, risciò, e poi carri trainati da cavalli o cammelli e mucche che procedevano lente ignorando completamente le urla e i clacson del traffico. Ci siamo aggregate ad una donna che sembrava riuscire a farsi largo nel marasma. Soltanto dopo ho capito che per fermare i mezzi e attraversare in relativa sicurezza non servivano strisce ma bastava stendere il braccio in segno di stop.Ma è stato il giorno seguente, con la prima uscita in tuk tuk verso la pink city (ovvero il centro) che l’India ha iniziato davvero a mostrarmi le sue tante facce: facce che ci scrutavano almeno quanto noi eravamo curiosi di scrutare loro. Stupiti com’erano di vedere occidentali, ci salutavano dalle moto e dai marciapiedi. All’Hawa Mahal, il “palazzo dei venti” una volta dimora delle moglie del Maraja, una famiglia ha voluto far fare ai propri figli una foto insieme a noi. Lo stesso è accaduto varie volte da lì in poi. Sangeeta, la donna a capo di Idex, la struttura di volontariato con la quale operiamo, è uno di quei volti che mi rimarrà più impressi. È stata lei a spiegarmi che a Jagatpura, il luogo dove avrei insegnato insieme ad un paio di mediatrici, due belgi e una svizzero-tedesca, avrei trovato le condizioni più degradate. Niente banchi o bagni, ma una stuoia per terra e due lavagne bianche. E a tratti l’elettricità -vitale per il ventilatore- sarebbe mancata. Due spagnole avrebbero decorato la scuola mentre noi avremmo tenuto a lezione le donne il mattino e i loro figli nel pomeriggio. Entrambi sarebbero venuti senza obbligo alcuno. Avere un registro li avrebbe solo spinti a non partecipare. Gheeta, ad esempio, una donna piccola dallo sguardo vispo, è arrivata in aula per ultima il primo giorno e si è seduta accanto a me. Gli indiani – ho scoperto – hanno un modo diverso di interagire tra loro. Gruppi di uomini molto amici tra loro vanno in giro a braccetto ad esempio, e non conoscono cosa sia lo spazio personale. Quando Gheeta è stata stanca di ripetere l’alfabeto si è messa dolcemente a riposare appoggiando la testa sulle mie gambe.