La Scavolini guidata dall’Artiglio «Bei ricordi e un grande rammarico»

Coach Attilio Caja allenò Pesaro per una stagione e mezza, lasciandola poi per tornare a Roma

Una promozione mancata, la guida di una matricola terribile che faceva ammattire le grandi, tifosi indimenticabili e un presidente amato (ricambiato, ricambiatissimo) ma poi “lasciato”, tanto da conservarne il rammarico a distanza di anni. Attilio Caja, colui che dalla panchina cercherà oggi di guidare Varese verso un successo che farebbe svoltare la stagione biancorossa, ha nel suo passato anche una parentesi in riva all’Adriatico.

“L’Artiglio” ha graffiato a Pesaro, per una stagione e mezza a cavallo tra il 1999 e il 2000. Valter Scavolini lo chiamò a sostituire Giancarlo Sacco alla 24° giornata del campionato 1998/1999, proprio mentre Varese – qualche centinaio di chilometri più a nord – viveva l’annata più magica della sua storia recente. La Scavolini era in A2, un’onta da cancellare in ogni modo possibile, anche affidandosi a un allenatore sulla cresta dell’onda dopo i campionati disputati a Roma che lo avevano fatto conoscere al grande pubblico del basket.

Sotto Caja Pesaro si rimette in corsa e arriva a playoff, dove non riesce nel colpo di reni per ottenere la promozione: Biella la elimina 3-1 in una combattuta semifinale. «Fu un peccato – commenta oggi Attilio Caja – Di quella prima metà stagione ho il bel ricordo dei miei due americani. Il primo era Steve Henson, bravo giocatore, gran tiratore, mentalità d’acciaio (era soprannominato il “marine”), che ebbi con me anche a Roma qualche anno prima. Il secondo era Tony Dawson, un talento offensivo come ne ho visti pochi, purtroppo limitato ad altissimi livelli dal fatto di avere una gamba più corta dell’altra».

La sconfitta contro i piemontesi viene “sanata” dalla disperata voglia di serie A del patron Valter, che acquista il titolo sportivo di Gorizia e ottiene fuori campo la promozione. La prima mossa del presidente è quella di confermare Caja: «E facemmo una stagione incredibile». Da neo-promossa Pesaro arriva quarta in campionato, raggiunge la semifinale di coppa Italia e agguanta i playoff: il tutto alle prese con un “parco avversarie” che annoverava ancora big vere (altro che quelle di oggi…), come le due bolognesi e la Benetton.

L’Artiglio si prende il lusso anche di battere Varese in casa, una Varese in tono minore rispetto all’anno prima ma pur sempre campione d’Italia in carica: «Quella era una squadra dall’atletismo incredibile – spiega Caja – Per l’aggressività che metteva in campo, per come difendeva e correva in contropiede è stata unica in tutta la mia carriera, seconda forse solo alla Roma del 2000/2001. In certe partite le nostre avversarie non riuscivano per lunghi momenti a passare la metà campo tanto era il pressing che facevamo».

Merito di pedine come il Paolo Conti che oggi siede vicino a lui in panchina («ottimo giocatore e gran tiro») e di altri due Usa coi fiocchi, Melvin Booker (padre del Devin che al momento spopola in Nba) e Joe Blair: «Melvin era un talento che sapeva capire tecnicamente i compagni, oltre ad essere un eccellente persona. Blair era l’atletismo fatto a giocatore».

La memoria che ritorna alla luce è dolce: «Pesaro è una città che vive per la pallacanestro, proprio come Varese. Lavorare in posti così è bellissimo, trascinate. E ti dà enormi motivazioni vedere la gente che fa sacrifici, anche economici, per seguirti».

Ma è anche amara. Amara nella coscienza di uomo – prima che di un allenatore – che con gli anni ha capito di aver commesso un errore. Del quale oggi è pentito: «Valter Scavolini mi aveva fatto firmare un contratto triennale e credeva molto in me. Alla fine di quella bella stagione, però, ricevetti la chiamata di Roma: Malagò, che era diventato presidente, mi chiese di tornare. E io accettai, rompendo il contratto con Pesaro. Non fui corretto: tutto stava andando benissimo e dovevo rimanere. Diedi a Scavolini un grande dispiacere e lui lo rimarcò in un’intervista, nella quale mi tirò alcune bacchettate. Ampiamente meritate: aveva ragione». Che queste parole vengano pronunciate da un allenatore che. proprio grazie a quella “fuga”, l’anno dopo vinse l’unico titolo (la Supercoppa Italiana) della sua carriera con un club, rende bene lo spessore morale dell’uomo: anche chi sbaglia ha un’anima.