L’Italia ha bisogno di tanti eroi. Ma non tutti saranno loro grati

Il nostro viaggio grazie a “La Varese Nascosta” ci porta a incontrare Ambrosoli. Uomo che fece dell’onestà un valore che pagò con la vita. Quindi, l’architetto Bernascone, che “modellò” Varese

Probabilmente è solo una suggestione. Ma la postura e lo sguardo, sebbene con qualche differenza, mi ricordano molto le figure di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Perché l’Italia è un Paese che ha un disperato bisogno di eroi. I quali dovranno però fare i conti con l’oblio e soprattutto la mancanza di gratitudine.

Nella nostra puntata settimanale con “Le strade della memoria” de “La Varese Nascosta”, progetto che il giornalista Fausto Bonoldi porta avanti per l’associazione culturale varesina fondata da Andrea Badoglio e Luigi Manco, incontriamo due personalità oggi. E la prima è proprio Giorgio Ambrosoli, il famoso “eroe borghese”, che non si piegò ai poteri occulti che avvelenavano la vita democratica del nostro Paese. E che ha pagato con la vita.

Ai suoi funerali non partecipò nessuna autorità ad eccezione di alcuni esponenti della Banca d’Italia e Giulio Andreotti disse di lui che “se l’andava cercando”: a Giorgio Ambrosoli, assassinato a Milano la sera dell’11 luglio 1979 dal sicario italoamericano William Joseph Aricò, assoldato da Michele Sindona e Robert Venetucci, è intitolato il largo dove è posto il capolinea della “E” nel quartiere di Avigno. L’avvocato milanese pagò con la vita il forte senso della legalità e del dovere che lo spinse a respingere le pressioni politiche e le minacce mafiose che intendevano indurlo ad addomesticare le conclusioni dell’inchiesta che, come commissario liquidatore, aveva condotto sulla gestione opaca e fallimentare della Banca privata italiana di Sindona e a ritrattare la testimonianza resa ai giudici statunitensi che indagavano sul crack del Banco Ambrosiano.

Non a caso l’agguato mortale sotto casa gli fu teso la sera prima di quel 12 luglio in cui l’avvocato avrebbe dovuto sottoscrivere una dichiarazione formale. L’incarico di indagare sulla Banca privata italiana sull’orlo del fallimento gli fu affidato nel 1974 dal governatore della Banca d’Italia Guido Carli, il quale in precedenza, per non gettare nel panico i correntisti, aveva autorizzato un prestito volto a evitare il tracollo dei due istituti di credito del banchiere siciliano,

la Banca Unione e la Banca privata finanziaria, poi fuse nella Bpi. Nel corso dell’indagine commissariale emersero gravi irregolarità e numerose falsità nelle scritture contabili, oltre alle prove delle connivenze di pubblici ufficiali con il mondo opaco della finanza di Sindona. Il lavoro rigoroso di Ambrosoli si scontrò subito con una parte del mondo politico e finanziario che premeva per un salvataggio pubblico dell’istituto di credito (che avrebbe salvato Sindona dalla galera), attorno al quale ruotava un intreccio di interessi politici, finanziari, massonici (la P2) e mafiosi di cui il banchiere di Patti era il “regista”.

Consapevole dei rischi che stava correndo, in una lettera alla moglie Anna, in cui si diceva “pronto per il deposito passivo della Bpi”, cioè per la dichiarazione di fallimento, Ambrosoli definì l’incarico ricevuto, “che pagherò a molto caro prezzo”, un’occasione unica di fare qualcosa per il Paese. L’”Eroe borghese” di cui Corrado Stajano ha ricostruito la storia e che Michele Placido ha portato nel 1995 sul grande schermo era nato il 17 ottobre del 1933 a Milano da Riccardo Ambrosoli, avvocato dell’ufficio legale della Cariplo, e Piera Agostoni, in una famiglia cattolica e conservatrice. Da studente militò nell’Unione monarchica italiana prima di seguire le orme del padre e dedicarsi all’avvocatura. Nel 1962 sposò, nella chiesa di San Babila a Milano, Anna Lori, che gli diede tre figli: Francesca, Filippo, nato nel 1969 e morto nel 2009, e Umberto, candidato del centrosinistra alle ultime elezioni regionali vinte da Roberto Maroni, che nel 2009 pubblicò il libro “Qualunque cosa succeda”, da cui fu tratta nel 2014 una mini-serie in due puntate andata in onda su Raiuno.

“A canto della basilica sorge la torre tutta di sassi lavorati, di cui non v’ha pari nell’Italia”: non è l’atto d’amore di un varesino per la sua città ma un passo del saggio sulla storia di Varese dell’arciprete Francesco Bombognini, pubblicato nel 1828 nell’Antiquario della diocesi di Milano. Quel campanile, che possiamo a ragione considerare uno dei più belli d’Italia e che è il simbolo della nostra città, ha preso il nome dal suo progettista, Giuseppe Bernasconi o Bernascone detto “il Mancino”, uno dei maggiori architetti del suo tempo, a cui è intitolata la via che dall’incrocio con le vie Magatti, Volta e Manzoni, dopo aver attraversato piazza Monte Grappa, conduce all’incrocio con le vie Marcobi, Veratti e Sacco. Il Bernascone però il suo campanile non l’ha mai visto perché, nato secondo alcuni nella castellanza di Biumo Inferiore e secondo altri nella “squadra” di San Giovanni da una famiglia di “magistri d’arte” attorno al 1560, morì a Varese tra il 1627 e il 1928, una decina d’anni dopo la posa della prima pietra della torre, che arrivò al piano dell’orologio nel 1630, alla cella campanaria nel 1688 e che fu terminata, con l’edicola poligonale e la copertura di rame, solo nel 1774.

Di recente, inoltre, l’esame dei disegni originali dell’architetto conservati nell’archivio di San Vittore hanno consentito di stabilire che il progetto del “Mancino” fu rispettato solo in parte omettendo, per esempio, la collocazione di statue a mezza altezza. L’altra grande opera a cui si dedicò il Bernascone e da lui prediletta fu la costruzione delle cappelle della via del Rosario, come dimostra il fatto che il “magister” amava qualificarsi “architetto della Fabbrica delle cappelle del Sacro Monte”, un lavoro in cui dimostrò non solo la sua maestrìa di progettista ma anche un’attenzione per l’esecuzione che si espresse nella sua costante direzione dei lavori.

Nel 1598 il Bernascone fu prescelto dalle Romite ambrosiane per la costruzione del nuovo campanile del santuario ed esaudì il desiderio delle monache che volevano un campanile robusto con spigoli e basamenti di vivo sasso, a cui l’architetto unì però il mattone per ottenere un particolare effetto cromatico. I lavori ebbero inizio nel 1599 e furono completati nell’anno successivo.

Nel 1604 il Bernascone avviò la sua grande opera: la costruzione dell’oratorio dell’Immacolata, delle quattordici cappelle e dei tre archi che sorgono lungo il viale. Progettò minuziosamente le strutture architettoniche e i dettagli, come i disegni delle grate delle finestre, e riuscì a completare la costruzione delle cappelle attorno al 1620, dimostrando una straordinaria capacità di collocare gli edifici lungo la Via Sacra, da lui stesso progettata, e di armonizzare l’aspetto architettonico con il paesaggio. L’esito fu quello che il compianto professor Luigi Zanzi definì un “gran teatro montano”.

Il Bernascone si era “fatto le ossa” dapprima come intagliatore e poi come capomastro nel cantiere della riedificazione della basilica, la cui progettazione era stata affidata nel 1578 all’architetto Pellegrino Tibaldi. Tra le sue molteplici attività svolse anche quelle di agrimensore, dimostrata dalla presenza negli archivi varesini di misurazioni, spartizioni, stime di terreni da lui eseguite, e persino di appaltatore di lavori stradali.

Uomo pio e niente affatto avido, assicurò a sé stesso, alla consorte e ai numerosi figli un discreto benessere garantito dalle sue molteplici attività, tranne quella di “architetto della Fabbrica delle cappelle”, per la quale non chiese alcun compenso e per la quale ha ottenuto però la fama imperitura di progettista di un patrimonio dell’umanità.