Sant’Antonio, l’eremita protettore e taumaturgo

Nel falò si lanciano i bigliettini che riportano preghiere, speranze o desideri da bruciare nella pira

Sant’Antonio abate è una tradizione che dice ai varesini chi sono e da dove vengono. Sul “colle” della Motta, come in migliaia di borghi e cortili italiani, l’usanza di accendere grandi fuochi nelle gelide sere d’inverno si perde nella notte dei tempi. Un simbolo di purificazione e di luce che puntualmente torna nella notte del 16 gennaio, precedendo il giorno dedicato al santo, perché da quella data si dovrebbe iniziare a guadagnare un’ora di luce in più.

L’ergersi della fiamma è interpretabile come segno per l’anno che verrà. Se il fuoco è alto e vigoroso la previsione è positiva. Fumo e fatica a prender fuoco sono, invece, presagio di difficoltà. Per i varesini è il ricordo della vita rurale che spingeva nonni e bisnonni a chiedere la protezione del santo dalla barba bianca. Fin da epoca medievale, infatti, l’eremita egiziano è stato invocato quale patrono dei macellai, dei contadini e degli allevatori e come protettore degli animali domestici; questo, forse, perché dal maiale gli antoniani ricavavano un preparato a base di grasso da spalmare sulle piaghe. Antonio, dice la tradizione, era anche un taumaturgo capace di guarire le malattie più tremende. E poi, c’è la credenza popolare che vuole che il Santo aiuti a trovare le cose perdute. Nel falò della Motta è uso porre prima dell’accensione, o dopo tramite l’aiuto di chi doma la fiamma, dei bigliettini che riportino preghiere, speranze o desideri. Gli s’affidano gioie e difficoltà che simbolicamente bruciano nella pira. Gli anziani consigliano di specificare bene le richieste, non solo perché ne riceve molte in una volta sola, ma anche perché si rischia davvero d’essere esauditi. Un modo per interrogarsi anche su cosa nel profondo il nostro cuore aneli. Per lo stesso motivo nei giorni della festa dentro e fuori la chiesa della Motta si accendono migliaia di fiammelle, candele benedette. Negli ultimi anni oltre a un moroso per le “ragazze da marito”, al santo glorioso vengono fatte le richieste più diverse, dalla pace familiare al lavoro, arrivando persino a bruciare il curriculum come buon auspicio. E c’è chi ogni volta non perde l’occasione per chiedere un occhio di riguardo per Varese. Uno spirito condiviso con i piccoli delle scuole cittadine che preparano bigliettini da attaccare ai palloncini per il lancio del 17 gennaio a mezzogiorno. Spinti da venti propizi i loro desideri di pace e fratellanza viaggiano anche per centinaia di chilometri. Nello stesso momento vengono benedetti gli animali da quelli da fattoria legati alla tradizione contadina e quelli da compagnia che sempre di più entrano nelle case e negli affetti dei varesini.

Al prevosto spetta il compito, poco prima di benedire anche i pani, di recitare la speciale preghiera che ha raggiunto persino tigri e civette.

La forza della festa sta proprio nella tradizione, in quel rituale religioso e civile che si ripete di anno in anno: lumi e preghiere, frittelle e salamelle, il mercatino che si fa spazio in pieno centro e i commercianti che escono dai negozi insieme alle bancarelle di artigianato, golosità e prodotti tipici e che riportano nella città di provincia il sapore dell’antico borgo. Chi sono i varesini, invece, lo dice l’operato dei volontari, ma anche le istituzioni. Da una parte e dall’altra mostrano come si porta avanti e come si sostiene la festa più antica della nostra città. Il Comune fornendo il patrocinio, i Monelli che passano ora al freddo tra banco gastronomico e pira e i parrocchiani di san Vittore che tengono aperta la chiesa e distribuiscono candele e immaginette custodendo nel cuore volti e desideri di chi al santo si rivolge. Sono anche le migliaia di abitanti delle parrocchie di centro, Bosto, Brunella e Casbeno parte della Comunità Pastorale dedicata al santo che da sei anni cercano di vivere un cammino condiviso e coordinato.