«Se tutto si basa su quella famosa lettera allora stanno processando un innocente»

Il superteste Vittorini a ruota libera: «Io la verità avrei voluto dirla ma non mi hanno voluto ascoltare»

«No, non ho parlato con il mio assistito».

E a seguire: «Certo che ho in ogni modo tentato di convincerlo a farsi avanti nel corso dei mesi».

è l’avvocato bresciano che ha dichiarato di rappresentare il vero autore della missiva anonima “In morte di un’amica”, recapitata a casa Macchi il 10 gennaio 1987, giorno delle esequie di , 20 anni, studentessa varesina, assassinata con 29 coltellate nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987.

Secondo la procura generale di Milano quella lettera fu scritta dall’assassino o da qualcuno che sapeva molto dell’omicidio. Sulla base delle dichiarazioni di , conoscente di Lidia, fu arrestato il 15 gennaio 2016 , 50 anni di Brebbia, ex amico della Bianchi ed ex compagno di liceo di Lidia. Per la Bianchi, che ha fornito 4 vecchie cartoline per un confronto, la lettera anonima la scrisse Binda. Vittorini dice di no.

«Se tutto si basa sulla lettera – dice l’avvocato bresciano – stanno processando un innocente per omicidio». Vittorini l’altro ieri non è stato ascoltato dalla Corte d’Assise presieduta da che, con un’ordinanza, gli aveva intimato di dire tutto (compreso il nome dell’assistito violando il segreto professionale in toto) o non dire niente. Vittorini ha taciuto. «Un fatto ben strano – spiega il legale bresciano – il mio ordine professionale ha stabilito che una testimonianza parziale era ammissibile. Avrei spiegato ogni cosa su quella missiva. Dando la giusta prospettiva al fatto: il mio assistito nemmeno conosceva Lidia Macchi. Era distantissimo dai luoghi dell’assassinio. L’assioma lettera uguale assassino è del tutto infondato». , madre di Lidia, aveva rivolto un appello al legale: «dica la verità».

«Io la verità avrei voluto dirla – spiega Vittorini – non mi hanno voluto ascoltare».

La procura generale ha esortato l’avvocato in coscienza a parlare. «Se la mettessero loro una mano sulla coscienza – ribatte Vittorini – Il Dna ce l’hanno già. È sulla busta che conteneva la lettera. Non appartiene a Binda. Se la mettessero loro una mano sulla coscienza». Sulla genuinità del proprio assistito aggiunge: «Credo, dopo quasi 40 anni che esercito questa professione, di essere in grado di distinguere chi mente da chi dice la verità. Se avessi avuto dei dubbi non mi sarei mai esposto in questo modo». E ancora, sulla possibilità di consegnare in forma anonima il Dna del proprio assistito per un confronto Vittorini spiega: «quale valenza avrebbe? Potrei consegnare il Dna del mio gatto. È assurdo. Processualmente non avrebbe valore. Ripeto – dice il legale – il Dna di chi ha scritto la lettera è già in possesso delle parti. Non appartiene all’imputato. Perchè allora si trova a processo?».

Certo, però per la Corte servirebbe un riscontro: «per Binda non è servito». Sul fatto di non essere stato ascoltato: «siete strani voi a Varese».

E appare chiaro che il 27 ottobre, pur avendone la possibilità, Vittorini non tornerà in aula. «Sarebbe inutile». Sul perchè il proprio assistito non si faccia avanti Vittorini chiosa: «non ha nulla a che vedere con il delitto. Ma in questa situazione credo che il timore sia ampiamente giustificato».