«Vidi Tortora in manette. E decisi: io farò l’avvocato»

La Ferita - Il 18 maggio ’88 moriva il conduttore. Il suo caso di mala giustizia ha cambiato la vita di Stefano Amirante

Il 18 maggio 1988, 28 anni fa, moriva . Paradossalmente quello che fu un grande giornalista e l’interprete di una televisione intelligente ed elegante, così lontana dall’attuale, non viene ricordato per i suoi successi professionali.
È il “caso Tortora” che noi oggi tutti ricordiamo: uno dei casi di malagiustizia più eclatanti, quello che tutti ricordiamo da quel 17 giugno (era un venerdì) del 1983 quando Tortora fu arrestato con accuse pesantissime: associazione camorristica e traffico di droga.
Accuse che gli furono rivolte da collaboratori di giustizia poi rivelatisi dei bugiardi: Tortora, dopo sette mesi di carcere e dopo una condanna in primo grado a dieci anni, fu assolto.

La sua innocenza provata: anni dopo i suoi delatori si scusarono con i familiari per quelle accuse false e infamanti.
Prima della verità, in quel giugno del 1983, c’era un’immagine che campeggiava sui giornali di tutta Italia: «Tortora – racconta l’avvocato – al momento dell’arresto. Una fotografia seppiata, con lui, l’uomo di Portobello, quello che per noi bambini era un uomo capace di parlare con un pappagallo, circondato da carabinieri: era ai ceppi. Perché

all’epoca quelli si utilizzavano».
Quell’immagine qualcuno l’avrà archiviata. Altri, i delatori, ci si augura la vivano come un tormento perpetuo. Amirante, allora bambino, la interpretò poi come un’ispirazione.
«Diciamo che crescendo quel caso, il “caso Tortora” fu tra i fatti che mi spinsero a diventare un penalista – spiega Amirante – non soltanto avvocato. Scelsi di specializzarmi in diritto penale». Penalista, anziché civilista. Per i digiuni di aula di tribunale Penale e Civile sono due mondi separati. Amirante dice una cosa forte: «Scelsi il penale quando capii sino in fondo che ci sono i Riina e i Tortora – spiega – I colpevoli, i Riina, e gli innocenti: i Tortora. E che un avvocato penalista può fare la differenza tra i due”.

Amirante aggiunge: «Spesso mi chiedono come, da avvocato, io possa difendere dei colpevoli. La verità è che spesso l’avvocato non sa se il suo assistito è colpevole o innocente. Ma quell’immagine di Tortora ai ceppi mi spinse ad una riflessione». Tortora, come molti altri, arrestato con accuse pesantissime: «Era una figura familiare. Uno che era di casa perché era in Tv. Lo arrestarono nessuno pensò: è innocente».
«Nemmeno io allora ragazzino – spiega Amirante – E invece innocente lo era. E questo non avergli creduto, provato in prima persona come accadde a milioni di italiani, mi convinse più avanti a scegliere il penale».
«Preciso: non tutti coloro che vengono arrestati e vengono mandati a processo sono innocenti, naturalmente. Ci sono i colpevoli, certo. Ma meritano un giusto processo. È così che ho tracciato la mia strada professionale: garantire la giusta pena ai colpevoli, che giustamente devono espiare i reati commessi, e restituire verità agli innocenti. Come Tortora».
Un’ispirazione. «Quell’arresto gli cambiò la vita – conclude Amirante – Il suo impegno con i Radicali, il suo impegno per i detenuti. Forse non ci avrebbe mai pensato senza quelle accuse ingiuste. Morì di quelle accuse. E io decisi che per quanto in mio potere l’avrei evitato ad altri. Fu così, dopo Tortora, che scelsi il penale. Ed ebbi una certa idea di giustizia».