Ben ritrovata, torta di pane Perché il buono è semplice

Noi povere mortali madri di famiglia che ci barcameniamo fra i fornelli, figli e portafoglio sgonfio alla fine del mese (facciamo già a metà), che ci chiediamo dopo il voto una volta in più come si andrà a finire con questa crisi, dobbiamo rispolverare senza tanti complimenti la cucina povera delle nonne.

Fra frizzi e lazzi e cerimonie effettivamente ho trascurato questo taglio: riprendo al volo parlando subito di una delle ricette nostrane di riciclo più amate, la torta di pane. È la mia amica Simona Lauri, la guru della panificazione, a raccontarmi storia e curiosità di questa tradizione contadina.

Cibo da “schiscetta”, facilmente trasportabile, condensa in sé tutta la sacralità del pane, simbolo cristiano per eccellenza, di cui non dev’essere sprecata nemmeno una briciola.

Una torta poverissima e fra le più antiche che la massaia bosina abbia mai cucinato, che si faceva e si fa tuttora svuotando letteralmente la dispensa. Economica anche a livello energetico, perché una volta si cuoceva a forno appena spento, dopo gli arrosti, dovendo prendere pochissimo calore. Il classico esempio di cottura lenta, quello delle nostre nonne che avevano tempo, tutto quello che purtroppo noi non abbiamo più. Come per i fagioli, o il coniglio cotto nelle braci, i bruscitti e le minestre nel calderone che iniziavano a sobbollire nel primo pomeriggio.

Simona mi racconta che nella versione minimalista questa torta era fatta solo di pane ed acqua; i più ricchi potevano permettersi di bagnare il pane duro con il latte, i poveri no. Nelle versioni moderne ha le uova e il burro, in quella che Simona mi ha gentilmente concesso di pubblicare, no: sono un’aggiunta posteriore, di dispense ricche. Così come il cacao, che si può tranquillamente escludere perché un tempo la torta prendeva il colore semplicemente dalla doratura di biscotti e pane.

In origine poi si usava il miele che si aveva in casa, probabilmente quello di melata o di castagno; quello di acacia, il più nobile, arriva tardi, essendosi la pianta della robinia acclimatata nelle nostre foreste solo nell’Ottocento.

Alla base nuda e cruda la fantasia e la disponibilità delle risorse del momento ha poi suggerito nel tempo aggiunte come uva, mele, cannella e zenzero, le uova appunto, gli amaretti, la frutta candita. La frutta secca era invece sempre una costante fissa, essendo le noci e le nocciole risorsa dei boschi di cui si faceva raccolta a fine estate.

Ingredienti: mezzo chilo di pane raffermo, latte q b per ammollare (un litro e mezzo circa), 75 grammi di miele (acacia o millefiori: volendo si può sostituire con 100 grammi di zucchero, meglio se integrale di canna), uvetta, nocciole tostate (potete farlo voi in forno), rottura di biscotti q. b. e a piacere, volendo mandorle, pinoli e granella di amaretto o di mandorle per spolverare.

Ammollare il pane secco nel latte e farlo riposare per una notte. Bagnare l’uvetta per cinque minuti in acqua fredda, volendo col rhum o il maraschino… Portare a 180 gradi il forno.

Foderare di carta forno una tortiera da 26 centimetri di diametro. Incorporare nel pane ammorbidito gli altri ingredienti, rompendo i biscotti grossolanamente; versare il composto nella tortiera, livellare e guarnire con i pinoli, gli amaretti sbriciolati o la granella di mandorle. Cuocere per circa cinquanta minuti: è ottima tiepida.

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