Caso Macchi. «Era a Pragelato quella notte». Confermato l’alibi di Binda

Due testimoni hanno dichiarato che l’imputato si trovava con loro lontano dalla provincia. Inoltre spuntano quattro vetrini dall’istituto di medicina legale di Varese, contenenti tessuti prelevati nell’autopsia

Due testimoni confermano l’alibi di Binda: «era a Pragelato la notte dell’omicidio». E spuntano quattro vetrini dall’istituto di medicina legale di Varese: contengono tessuti prelevati in sede di autopsia e appartenenti a Lidia. Nello specifico tessuti renali, uterini, cerebrali e polmonari. «Dopo 30 anni è chiaro che qualunque esame si volesse eseguire sarebbe unico e irripetibile – ha detto il pm Gemma Gualdi, alla quale va il merito di aver trovato i preziosi reperti – quei campioni si polverizzerebbero soltanto ad uno sguardo.

Decida la corte cosa fare». Dai tessuti uterini, in particolare, si potrebbe cercare di estrarre tracce biologiche di chi la notte dell’omicidio ebbe un rapporto sessuale con Lidia Macchi, la studentessa varesina di 20 anni uccisa nella notte tra il 5 e il 6 gennaio del 1987 con 29 coltellate. Sul banco degli imputati siede oggi Stefano Binda, 50 anni, di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia, arrestato il 15 gennaio 2015 con l’accusa di aver assassinato la ragazza. Binda ha sempre sostenuto di trovarsi a Pragelato al momento dell’omicidio, precisamente avrebbe partecipato ad una vacanzina dall’1 al 6 gennaio 1987 organizzata da Comunione e Liberazione movimento al quale sia lui che Lidia aderivano. E il colpo di scena ieri in aula, davanti alla corte d’assise presieduta da Orazio Muscato è arrivato verso la fine dell’udienza quando ha testimoniato Gianluca Bacchi Mellini, commercialista luinese che a sua volta partecipò a quella vacanzina.

«Sì Binda c’era ed era in camera con me». Il silenzio è sceso in aula. Bacchi Mellini sentito dalla Mobile di Varese nell’ottobre 2015 aveva detto di non ricordare «se Binda fosse o non fosse presente a Pragelato». Era in dubbio. Quando Binda fu arrestato iniziò a pensare e ripensare a quella vacanza. E ha ricordato: «nelle camere c’erano i letti a castello. Io ho sempre dormito sopra. Sempre. Ho pensato e ripensato: chi c’era sotto di me? Stefano Binda». Bacchi Mellini ha retto il fuoco di domande del pm e del presidente: «perché con Binda in carcere non si è fatto avanti prima?». «Credevo – ha detto il teste – che sarebbe stato subito scarcerato. E sapevo che un altro teste, più preciso di me, aveva già affermato durante le indagini che Binda era a Pragelato ma non era stato creduto. Ho pensato: perché dovrebbero credere a me?». Bacchi Mellini ha detto: «mi assumo la piena responsabilità di quello che sto affermando. Me la assumo soprattutto nei suoi confronti», ha detto indicando Binda come a dire: «avrei dovuto parlare prima». Dopo di lui ha testimoniato Donato Telesca, altro partecipante alla vacanzina: «ricordo un episodio a Pragelato: io e Binda, che non sciavamo, al bar a bere una birra e a chiacchiarare». Telesca a fronte di una foto di gruppo scattata durante quella vacanzina afferma: «quello con i Monboot sullo sfondo potrebbe essere Stefano Binda». Un terremoto: Binda adesso ha un alibi confermato da due persone, mentre gli altri partecipanti ascoltati non possono ne affermare ne escludere che ci fosse perché non ricordano. Varese, almeno la Varese giudiziaria di 30 anni fa, esce malissimo dalla vicenda vetrini: «Ritengo scandaloso e inaccettabile che dopo quattro anni che andiamo avanti cercando per mari e per monti i reperti di Lidia, l’istituto di medicina legale di Varese non si sia mai adoperato per fare una verifica». Dice l’avvocato Daniele Pizzi, parte civile per la famiglia Macchi. «Se non fosse stato per la caparbietà della procura generale molto probabilmente questi vetrini sarebbero scomparsi per sempre come tutti gli altri».