«I fascisti uccisero la mamma

Noemi Tognetti: «Ospitavamo partigiani a Besnate. Le Brigate Nere sono entrate scatenando l’infernoTrascinata col mio fratellino in prigione a Varese»

– La Resistenza è fatta di storie e di donne orgogliose. È fatta di dolori e di silenzi, di sguardi fieri e di bellezza. La Resistenza è fatta di ferite impossibili da rimarginare, che fanno un po’ meno male solo se vengono raccontate. La Resistenza è fatta dei nostri boschi, delle nostre campagne, delle nostre cascine e del sangue che ha imbevuto la nostra terra. Il nostro 25 aprile è qui: nelle parole appassionate di Noemi Tognetti, una splendida donna di ottantacinque anni che è ancora capace di commuoversi e commuovere nel parlare di quei giorni. «Perché è giusto che i giovani sappiano e a loro volta poi raccontino». La storia di Noemi e della sua famiglia sboccia come un fiore nell’asprezza di quei tempi tremendi e duri: la guerra, il lavoro nei campi o in stabilimento, bambini diventati grandi senza avere avuto il tempo d’esser stati bambini.

«Era il 1944 – racconta lucida Noemi – e in quei giorni faceva un gran freddo. Noi abitavamo alla cascina Arianna, un casolare disperso tra i boschi di Buzzano, un quartiere di Besnate.I partigiani venivano giù dalle montagne e a casa nostra trovavano sempre un tetto, un po’ di latte e una scodella di minestra. Li ospitavamo senza farci troppe domande, perché la mia mamma negli sguardi di quei ragazzi vedeva quello di suo figlio che era malato. In quei giorni il papà non era in casa perché era in prigione: lui, come tanti cacciatori della zona, aveva consegnato la sua doppietta in ritardo e l’avevano portato via. Prima era però riuscito a parlare con un partigiano di Besnate che si chiamava Tenconi: gli aveva chiesto di non portare nessuno in casa sua, nei due mesi in cui lui sarebbe stato in galera».

Emilia Tomasetto, uccisa dalle Brigate Nere il 12 dicembre 1944 davanti agli occhi della figlia Noemi, allora quindicenne, che ci ha raccontato la sua storia

Emilia Tomasetto, uccisa dalle Brigate Nere il 12 dicembre 1944 davanti agli occhi della figlia Noemi, allora quindicenne, che ci ha raccontato la sua storia

(Foto by Archivio della famiglia Tognetti)

Eppure, quella sera, i partigiani arrivarono lo stesso. «Si presentarono e la mia mamma li fece entrare in cascina: solo per una notte, promise il Tenconi. La mattina dopo, però, i partigiani erano ancora lì. Avevano mandato uno dei loro a prendere contatto con un’altra brigata e aspettavano il suo ritorno per sapere quali fossero gli ordini. Quel partigiano però non era riuscito a raggiungere la brigata, perché era stato preso dai fascisti che a forza di botte erano riusciti a farlo parlare».

La voce di Noemi, di tanto in tanto si incrina: sono passati settant’anni, ma il tempo non è capace di scalfire il dolore. «Erano le sette del mattino, aveva iniziato a nevicare. Arrivarono tre camion delle Brigate Nere, accompagnati da quel partigiano che era stato costretto a parlare. Io ero in camera da letto a mettere le scarpe perché dovevo uscire a prendere il pane e sentii subito i primi spari, le prime urla. Mi precipitai fuori.

La mia mamma era alla finestra: una raffica di mitra la colpì alla gola e la uccise sul colpo. I fascisti sparavano e gridavano ai partigiani di uscire fuori, ma i partigiani erano già usciti e si erano arresi. Eppure i fascisti sparavano, sparavano: sono andati avanti a sparare per un’ora. Io ero sotto al tavolo, il mio fratellino si era nascosto sotto il letto: volevo andare dalla mia mamma ma tutto attorno a me erano spari e calcinacci che schizzavano. Poi si scoprì che uno dei partigiani era scappato in casa nostra: ecco perché quelli continuavano a sparare».

Poi, gli spari finiscono. «Ci misero tutti al muro: i partigiani, io con mia sorella Olga che era a casa dal lavoro perché aveva la febbre e mio fratello Rino. I fascisti allora hanno iniziato a picchiare i partigiani, ma sapeste quante botte gli hanno dato e noi eravamo convinti che dopo avrebbero picchiato anche noi. Eravamo al muro, a tre metri da noi c’era la nostra mamma immersa in una pozza di sangue e calpestata dai fascisti che entravano e uscivano di casa. Si presero tutto: quel poco oro che avevamo, le galline, la mucca. Non ci picchiarono, perché i partigiani giurarono che noi eravamo stati costretti ad ospitarli sotto la minaccia delle armi: e non era mica vero.

L’immagine di alcuni partigiani del gruppo di Besnate scattata dal partigiano John: a sinistra Olga Tognetti, una delle figlie di Emilia Tomasetto

L’immagine di alcuni partigiani del gruppo di Besnate scattata dal partigiano John: a sinistra Olga Tognetti, una delle figlie di Emilia Tomasetto

(Foto by Archivio della famiglia Tognetti)

Ci misero in colonna: i fascisti davanti che cantavano “Vittoria” e noi in fila con i partigiani. Ci fecero passare per le vie del paese per mostrarci a tutti quanti e lì incrociammo nostra sorella Lina che tornava dalla fabbrica. Lei provò a venirci ad abbracciare ma ce la strapparono via. Ci portarono in prigione a Varese, poi al comando tedesco prima di essere rispedite a casa. Interrogarono anche mia sorella Lina, la picchiarono per costringerla a confessare che in casa nostra nascondevamo partigiani. “Se non parli mandiamo le tue sorelle in Germania”. Ma lei prese le botte, e non disse nulla. Tornammo che il funerale di mia mamma era già stato fatto. Anni dopo le mie sorelle sono state premiate. Ma la mia storia non l’ha mai voluta ascoltare nessuno». Il nostro 25 aprile è un regalo: che facciamo a noi stessi, che facciamo a Noemi. Una storia da ascoltare, perché parla di noi.