L’arte di dire cose grandi, arrivando al cuore di tutti

Il commento di Laura Pantaleo Lucchetti sul pellegrinaggio a Varese del monsignor Delpini

«Sono stato chiamato ad un compito alto e pieno di responsabilità che mi fa sentire piccolo e inadeguato rispetto ai miei predecessori»: queste sono le parole che monsignor Delpini, il nuovo arcivescovo di Milano, l’uomo che dal 24 settembre guiderà la diocesi più grande del mondo, ha pronunciato nei giorni scorsi nelle chiese varesine dove ha portato la sua preghiera a Maria in preparazione al suo ministero.

Si potrebbe facilmente pensare che quel richiamo al sentimento di inadeguatezza altro non sia che il classico topos letterario largamente usato e abusato nel tempo e non solo in letteratura; e invece non è così, o comunque non solo. Di certo don Mario Delpini, insegnante di greco, patrologia e latino presso il seminario di Milano, ha fatto dell’ars retorica un mestiere: ma quel che chiaramente emerge dai suoi discorsi tenuti a braccio e dalla gestualità serena e affettuosa sono ben altri fattori.

In primis, le variazioni sul tema, che riservano sempre qualche subitanea impennata di stile adeguata al contesto: per dire, in un’ora e mezza, da Santo Stefano di Bizzozero a San Vittore arrivando alla Madonnina di Biumo sono state ben tre le spiegazioni, pur sul medesimo canovaccio, intorno alla scelta della Pietà Rondanini per esemplificare la sua professione di fede che si appoggia al sacrificio di Cristo come Maria al Figlio deposto dalla Croce. Segno di grande duttilità intellettuale a cui si somma un forte rispetto per la novità del contesto, perché il desiderio di diversificare le proprie “performances” aggiungendo o sottraendo dettagli è indice della volontà di far sentire quel luogo unico, quei fedeli diversi da tutti gli altri: «Non indulgete nella banalità, fate risplendere la fiammella, la vostra luce: non si accende una fiaccola per tenerla sotto il moggio» ha spiegato dal pulpito del santuario di Santa Maria del Monte commentando il noto passo del Vangelo di Matteo. In secondo luogo è chiaro il riferimento allo stile umile delineato dal più grande retore della tardoantichità, colui che rinnovò in un colpo l’arte oratoria e omiletica segnando la via della letteratura latina medievale: sant’Agostino da Ippona e, un po’ tanto, anche da Varese, almeno fino a che non si dirà definitivamente che non fu veramente qui che concepì la conversione (e non lo si dirà).

Umile eppure nobile, semplice e antico: l’arte di dire, e fare, cose grandi con un linguaggio materno che arriva al cuore di tutti. Un novello Agostino della Chiesa Ambrosiana che giustamente ha reso omaggio, per propiziarsi un felice ministero, ai luoghi mariani, ambrosiani ed agostiniani: alle radici della fede.