Tanto ghiaccio sì, ma senza batteri

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Con l’afa di questi giorni la ricerca di un po’ di freschezza passa anche per bar e chioschetti dove ci si ristora a sorsi di succhi, centrifughe, granite e cocktail, con l’aggiunta di tanto ghiaccio.

La domanda è d’obbligo vista la notizia diffusa qualche giorno fa dalla Bbc che ha condotto un’inchiesta a campione in qualche decina di caffetterie del Regno Unito, fra i punti di ristoro di popolarissime catene internazionali come Starbucks, Costa o Caffè Nero, scoprendo che, nel 30% dei campioni di ghiaccio usato per raffreddare le bevande, c’erano tracce di batteri fecali coliformi. L’Organizzazione mondiale della sanità indica chiaramente il ghiaccio in cubetti tra gli alimenti ad alto rischio di contaminazione biologica.

Ed è per questo che l’Istituto nazionale per il ghiaccio alimentare (Inga) ha predisposto un Manuale di corretta prassi igienica per la produzione di ghiaccio alimentare. Il testo completo del Manuale è scaricabile sul sito: www.ghiaccioalimentare.it e sul sito del ministero della Salute. Punti chiave del manuale sono:

– Il ghiaccio alimentare, ovvero quello che una volta sciolto risponde ai requisiti di legge sulle acque potabili, può essere prodotto e consumato nello stesso luogo di produzione.

– Non può essere messo in contenitori non certificati per il contatto con gli alimenti.

– Non può essere conservato o stoccato, come ad esempio messo in buste in celle freezer o pozzetti congelatori.

– Non può essere venduto sfuso o in contenitori/confezioni che non riportino: il lotto di produzione, da cui si possa risalire ad acqua e imballi primari impiegati nella produzione secondo quanto prescrive il reg. 178/02 sulla rintracciabilità dei cibi confezionati; il luogo o lo stabilimento di produzione.

– Gli stabilimenti di produzione che confezionano ghiaccio alimentare devono avere idonea autorizzazione ed essere registrati fra le imprese alimentari.