Il Vate della poesia. La potenza della parola

Il grande Gabriele D’Annunzio, tra i massimi intellettuali italiani, e i suoi trascorsi in terra varesina

Reduce dall’avventura di Fiume, occupata e governata dal settembre 1919 al dicembre 1920, il “Comandante” Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 – Gardone, 1938) chiese ai suoi collaboratori più fidati di trovargli una dimora vicina all’aeroporto per consentirgli di volare e lontana da Venezia, dove non desiderava più vivere.

«Se entro otto giorni nessuno di voi mi avrà trovato una casa conveniente» disse, in tono minaccioso, ai suoi «dato che in questo accampamento veneziano non intendo rimanere in nessun caso, mi butterò nel Canale».

Gli era stato consigliato, come si legge nelle biografie di Annamaria Andreoli e Giordano Bruno Guerri, un buen retiro in una zona di confine, nell’Italia settentrionale, un lago del Nord e la scelta era ricaduta tra il lago Maggiore, quello di Como e il lago di Garda. Com’è noto, d’Annunzio scelse la riviera gardesana, per realizzare il suo monumentale “Vittoriale degli Italiani”, a Gardone, grazie alla sollecitudine dell’editore Guido Treves. «Sento» disse il poeta Vate «che

è là che il mio destino mi spinge ad abitare», nella villa appartenuta al tedesco Henrich Thode, docente di storia dell’arte ad Heidelberg, studioso di Giotto e Tintoretto. Al d’Annunzio la dimora ricordava lo scenario della sua amata Capponcina, la sua dimora fiorentina, ed era «avido di silenzio dopo tanto rumore, e di pace dopo tanta guerra». D’Annunzio non scelse il Maggiore ma conosceva già la provincia di Varese e numerose sono le sue lettere che attestano il legame con molti intellettuali del territorio. Manoscritti dannunziani sono custoditi, infatti, in diversi archivi, da Malnate (all’interno del museo Realini) i carteggi con il suo editore e amico Arnaldo De Mohr all’Archivio di Villa Mirabello dove accanto al bel ritratto di Liala da giovane, capelli rossi e sedicenne, troviamo quello di D’Annunzio che le regalò la famosa ala nel nome.

La giovane scrittrice Amalia Liana Negretti Odescalchi, sposata con il marchese Pompeo Cambiasi, ufficiale di marina, fu ribattezzata Liala, come si legge nella celebre dedica dannunziana qui custodita: «a Liala, compagna d’ali e d’insolenze». L’avventura biografica di Liala, il suo tragico amore per il pilota Centurione Scotto, certamente colpirono d’Annunzio che era appassionato delle imprese di volo. Ospite del Grand Hotel Excelsior, l’attuale Villa Recalcati, aveva scritto, a proposito di velivoli della Macchi, che aveva osservato attraversare i cieli varesini: «dal lago di Varese i piccoli M5, M7, M9 si levavano di continuo rinnovandosi e trasformandosi, l’uno più celere dell’altro nell’ascensione, più saldo nella struttura, più obbediente nella manovra, invidiati e male imitati dallo straniero». L’attitudine a coniare nuove espressioni fu anche toponomastica: il borgo di Castiglione Olona, grazie al poeta divenne: «Isola di Toscana in Lombardia».

Nelle “Faville del maglio”, Corriere della Sera, il 3 marzo 1912 ne dipinse una pagina storico-artistica: «“Nulla è più commovente che il ritrovar d’improvviso una traccia o una figura d’arte nota e diletta in un luogo estraneo, come un fiore del nostro clima in un orto settentrionale. Mi ricordo del meraviglioso piacere ch’ebbi a Castiglione Olona, entrando nel Battistero e trovandomi immerso nella pittura di Masolino come in una fresca prateria toscana fiorita di fiori gialletti e rossetti. Che cosa di nuovo s’aggiunge al mio godimento nel rinvenire lo squisitissimo artefice entro quella specie di mistica cittadella fiorentina edificata dal Cardinal Branda sul colle lombardo? L’avevo conosciuto nella Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine, fior di giaggiolo chinato sotto la querciosa strapotenza masaccesca, ne avevo ricevuto in cuore tutta la castità della lunetta sopra l’altare in Santo Stefano d’Empoli, ma non avevo tremato di gioia e di meraviglia come dinanzi a quella pallida Erodiade che riceve sulle ginocchia il capo del Precursore seduta sotto la loggia ove le donzelle sbigottiscono. Quivi il colore assumeva il carattere delle apparizioni.

E quando uscii trasognato, avendo udito narrare la storia del Battista con un accenno fiorentino che talvolta rammentava in soavità quello dell’Angelico, non i rossi colori lombardi né il croscio dell’Olona nella chiusa forse vinciana, mi riscossero. Ma ripensai gratamente a messer Branda milanese cardinal di Piacenza, quale ce lo dipinge il buon Vespasiano cartolaio; il quale messere “non adoperava occhiali se non la notte, e tenevagli in camera in una buca” e non cenava perché era vecchio, ma “solo pigliava una scodella di pane molle nella peverada del pollo, e beveva due mezzi bicchieri di vino”».

Negli ultimi anni della sua vita, d’Annunzio temeva la luce, che faceva filtrare, flebile, attraverso vetri smerigliati, tende e pesanti drappeggi, nel Vittoriale. Sulla vita abbagliante dell’ “operaio della parola”, come amava definirsi, scese la morte che lo trovò sul suo tavolo da lavoro, nello studio detto “Zambracca”. Sulla scrivania volumi di storia toscana che il poeta pescarese studiava per un libro su santa Caterina. Sul “Temps” di Parigi si scrisse che era scomparso l’uomo che aveva saputo imporre i propri sogni agli altri uomini.