La culla dei canestri ora è vuota di coraggio

Giovani e basket: ne abbiamo scritto tanto e tanto ne abbiamo parlato: in una pagine che ha scatenato parecchie reazioni (quindi significa che andava fatta). Abbiamo semplicemente provato a dare una risposta alla domanda che ci batteva in testa da un bel pezzo: com’è che Varese non sforna più un talento da serie A dai tempi del Menego? Siamo riusciti a trovare una risposta? Eh, mica tanto: non siamo così bravi. Però abbiamo fatto parlare chi coi ragazzi ci lavora: chi li allena,

chi li cresce, chi li conosce. Abbiamo buttato un sassolino nello stagno per scatenare il dibattito: perché parlarne è sempre meglio che far finta di niente. Varese è una città particolare: sa di essere la culla del basket, e quindi è terribilmente gelosa di tutto quello che ruota attorno allo sport che l’ha resa bella e famosa. Parlare di settore giovanile e porsi delle domande equivale a fare incazzare qualcuno: lo sapevamo, e l’abbiamo fatto comunque.

Ci restano dentro i nostri dubbi e le nostre convinzioni, sia chiaro. I dubbi legati a un ambiente, quello del basket varesino, che troppo spesso si perde via in invidie e gelosie che hanno francamente rotto. E che secondo noi hanno fatto perdere alla città, quella sportiva almeno, delle occasioni importanti. Occasioni di dar vita al settore giovanile più forte d’Italia: ma mettere d’accordo Pallacanestro Varese e Robur pare sia impresa biblica. Occasioni di dare i nostri ragazzi in mano agli istruttori migliori: un mesetto fa avevamo chiesto i motivi dell’allontanamento di Schiavi, per esempio. Nessuno ce li ha detti, anche se a sentire in giro pare che tutta la città li conosca (guai però a chiedere di raccontarli, mettendoci la faccia, sul giornale).

Ma torniamo a bomba. Perché non nascono più talenti? La risposta, a chiedere in giro, è pressoché unanime: perché ci sono troppi stranieri, perché gli italiani non hanno più spazio, perché i nostri ragazzi non sono tutelati. E noi, su queste risposte qui, non siamo mica tanto d’accordo.

E diciamo la nostra: del resto, siamo qui per questo. Perché crediamo che l’idea di proteggere i nostri giocatori come se fossero una razza in via d’estinzione sia una fesseria mondiale. Perché crediamo che obbligare le nostre squadre a schierare prodotti di casa nostra finora abbia avuto l’unico effetto di aver alzato vertiginosamente il prezzo da pagare per avere un giocatore mediocri ma prezioso per il suo passaporto

Perché sogniamo una serie A di basket fatta di squadre in cui gioca chi merita di giocare perché è bravo, non perché è italiano. Perché il mondo è cambiato, e se un ragazzo italiano vuole vivere di pallacanestro ha molte più possibilità di farlo oggi, rispetto a vent’anni fa. Insomma: vent’anni fa c’erano le frontiere, oggi no: chi vuole, prenda su la borsa e vada a provarci lontano da casa (fanno così anche i giovani che escono dall’università e non trovano lavoro in Italia, o no?).

Insomma: abbiamo anche noi la nostra ricetta? No, abbiamo solo le nostre idee. E soprattutto abbiamo voglia di festeggiare presto il prossimo varesino “vero”: che gioca a basket ad alti livelli per meriti suoi, e non per diritti acquisiti.

Francesco Caielli

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