Una stella sul petto di Silvio il talebano

L’editoriale di Filippo Brusa di venerdì 11 dicembre 2015

Come sono tristi quei cuochi che non si vestono da cuochi ma, non si sa per quale assurda ragione, scelgono di indossare la giubba nera (sono forse in lutto?). Gualtiero Marchesi lo avrà ripetuto mille volte ai suoi allievi e uno di questi si chiama Silvio Salmoiraghi che ieri è entrato di colpo nella Guida Michelin ma non con una semplice citazione sulla “Rossa”. Il cuoco (e non chef, come sostiene con orgoglio lui) dell’Acquerello di Fagnano Olona ha ricevuto immediatamente la preziosa Stella Michelin,

che certifica una «cucina molto buona nella sua categoria». Noi abbiamo avuta molta familiarità con lui perché è stato protagonista, insieme a Simone De Martin, a Francesco Testa e a Stefano Zaninelli, della rubrica Cucinando, che ogni domenica si sedeva a tavola con voi, portandovi in casa quattro bravi cuochi. Di loro Salmoiraghi è il più anticonformista e ci è sempre piaciuto perché lui è uno di quelli che non le manda a dire. Si definisce «un talebano» e ieri ha risposto così alla telefonata di Gualtiero Marchesi, che gli chiedeva cosa fosse stato premiato della sua cucina: «Credo di aver ricevuto la Stella perché io semplicemente faccio da mangiare. Basta con le mode, la gente è stufa di vedere certe trasmissioni televisive in cui qualche cuoco di fama fa le sue comparsate senza saper tenere in mano neppure un coltello. Bisogna partire dall’essenza e sedersi davanti a quelle tavole in cui spiccano i profumi. E si sente forte l’odore dell’aglio, dell’olio, della cipolla». Parole sante e proprio sulla Provincia Salmoiraghi aveva impartito illuminante lezioni, denunciando certe magagne del sistema: «Dopo aver frequentato a Varese la scuola alberghiera e essermi diplomato, all’inizio degli anni Novanta, ho avuto una opportunità in Svizzera che però si è rivelata pessima: nelle cucine dei Grand Hotel in cui lavoravo si sentiva principalmente l’odore di glutammato (additivo usato come esaltatore dei sapori, ndr) e mi sono spaventato. Per fortuna, però, ho potuto dimenticare subito l’esperienza negativa andando a lavorare a Milano da Pietro Leemann, lo svizzero che è diventato uno dei grandi innovatori della cucina italiana con il suo locale “Joia Alta Cucina Naturale”. Il suo modo di concepire la cucina nasce dalla considerazione che noi siamo lo specchio del cibo che mangiamo e il mio stile ha iniziato a prendere un’impronta grazie a lui. Mi sono potuto sentire presto in Serie A e poi sono riuscito a entrare addirittura nelle grazie di Gualtiero Marchesi». Silvio Salmoiraghi adesso è entrato anche nella Guida Michelin, che lo ha premiato giustamente ma lui non ha fatto mai drammi (qualche collega già stellato lo prenda ad esempio) quando la “Rossa” si ostinava a ignorarlo. Vogliamo chiudere con i consigli che, sempre dalle pagine del nostro giornale, aveva rivolto ai giovani: «Quando lavoravo da Marchesi c’era una regola a cui chi stava in cucina non poteva sottrarsi: Gualtiero passava a guardare in faccia ognuno di noi e chi aveva la barba incolta doveva tornare in camera a tagliarsela. Lo stesso succede nelle aule di Alma e il controllo non vale solo per la barba ma anche per la divisa che deve essere assolutamente bianca. Odio chi si mette la giacca nera in cucina perché solo il bianco è il colore del cuoco. E sapete perché? Perché il bianco è il colore della pulizia, che non deve mancare a chi tocca gli alimenti. Quando si è in servizio bisogna portare anche il cappello, pantaloni e scarpe devono essere curati al massimo e il torcione, celebre canovaccio del cuoco da usare durante il lavoro, va messo in vita con un nodo, in modo da non perderlo. Sono insegnamenti base ma non sempre tutti se li ricordano anche perché spesso si vedono colleghi agghindati con giacche nere o con bandane in testa: ma con un aspetto del genere ci si finisce per sputtanare perché noi non andiamo a lavorare al circo ma in cucina». Bravo Silvio, sei andato diritto per la tua strada, con le tue idee, e ti sei meritato una Stella che anche noi ci sentiamo un po’ nostra.