Viva le donne che votano. Ma guai a chi le vuole votare

L’editoriale di Laura Campiglio

Quella tra donne e potere, si sa, è una storia lunga millenni; con urne e schede elettorali invece dura solo da settant’anni, con la politica attiva – intesa come possibilità di ricoprire un ruolo istituzionale risultando credibili – forse non è mai iniziata. Oggi insieme alla Repubblica si festeggia anche il suffragio universale e l’estensione del diritto di voto alle donne. E il 2 Giugno insegna come anche i piccoli dettagli storici possano essere maestri di vita.

Quando venne emanato il decreto Bonomi, pensate un po’, si parlava solo di elettorato passivo e non attivo. Le donne, cara grazia, potevano finalmente votare, ma non potevano essere elette: una “svista” (inutili, a questo punto, malignità e dietrologie: la storia ufficiale parla di svista e tanto basti) che De Gasperi e Togliatti provvidero a correggere nel giro di qualche mese, concedendo all’altra metà del cielo anche l’eleggibilità. Ma una svista che con il senno di settant’anni dopo appare molto indicativa, se non addirittura profetica: oggi come allora un conto è votare, un altro essere elette. Un conto è accaparrarsi il voto delle donne, un altro è metterle in lista. Le donne sono pronte ad esprimere la loro preferenza elettorale da ben prima che fosse loro concesso di farlo (la storia del suffragio femminile in Italia, del resto, parte da metà dell’Ottocento, con un pur limitato accesso all’elettorato passivo nel Lombardo-Veneto e in Toscana), ma il Paese non è pronto a votare le donne, né tantomeno a candidarle.
Quando, nell’anno domini 2016, un Bertolaso qualunque se ne esce dicendo che una donna, nella fattispecie Giorgia Meloni, non può fare il sindaco perché «deve fare la mamma e allattare il suo bambino», prontamente si alza il coro degli indignati, ma buona parte del Paese pensa che sotto sotto abbia ragione lui. È lo stesso Paese che per attaccare un personaggio politico come Rosi Bindi, che nella sua così lunga carriera di cose controverse ne ha fatte e dette non poche, inizierà sempre dicendo «è brutta» (si ricordi, a tal proposito, la tristemente nota battuta «lei è più bella che intelligente» con cui l’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi, mai come in quel frangente alfiere del pensiero dell’italiano medio, apostrofò Bindi a Porta a Porta).
È lo stesso Paese in cui ministri e parlamentari vengono nominati con il solo cognome se uomini, con l’immancabile articolo determinativo femminile se donne: “la” Fornero, “la” Carfagna, “la” Boschi.
È lo stesso Paese in cui, a proposito di Carfagna e Boschi, un ministro di bell’aspetto deve per forza avere in qualche modo trescato con il premier, se no non si spiega: e allora giù con le malignità più infamanti a tutti i livelli, dalla strada ai palazzi del potere.
È lo stesso Paese in cui quando un governo giura davanti al Presidente della Repubblica tutti i giornali, anche i più autorevoli, commissioneranno sempre un articolo di costume a una giornalista (donna, ça va sans dire) per commentare l’abbigliamento delle ministre, il trucco-parrucco, l’abbinamento scarpa-borsa.
E la politica locale è ancora una volta specchio fedele di quella nazionale: la corsa per le amministrative di domenica è tutta maschile. Né a Varese né a Busto né a Gallarate c’è una donna che possa aspirare a diventare sindaco: che si accontentino di votare, queste femmine, e stiano contente se a qualcuna di loro verrà assegnato un assessorato (minore, c’è da scommetterci). Sono davvero dall’altra parte del mondo, e non solo in senso geografico, gli Stati Uniti, dove una certa Hillary Rodham Clinton rischia di diventare il primo Presidente donna. Ma anche in questo caso, ci sarà sempre qualcuno col ditino alzato a dire che se vince è solo perché è “moglie di”.