«Gli americani? Sono razzisti Un presidente nero non basta»

L’americanista Bergamini: afroamericani ancora cittadini di serie B. «Attese eccessive su Obama. L’Italia più tollerante degli Stati Uniti»

A 50 anni dalla marcia di Selma per i diritti civili di Martin Luther King, gli afroamericani sono ancora vittime di razzismo. Da quello storico corteo in Alabama per il diritto al voto alla uccisione del diciottenne Micheal Brown per mano di un agente di polizia nel Missouri è passato mezzo secolo ma oggi come allora l’America si scopre ancora intollerante nei confronti di chi ha la pelle nera. Un amaro risveglio per la comunità internazionale che, dopo l’elezione del primo presidente afroamericano, Barack Obama, ha eletto gli Stati Uniti patria dei diritti umani e civili.

«Gli afroamericani sono ancora considerati cittadini di serie B, non solo per il colore della pelle ma anche per una serie di fattori sociali come l’appartenenza di classe, la condizione di status economico, di istruzione, dei quartieri in cui vivono», spiega Oliviero Bergamini, capodesk della redazione Esteri del Tg1 Rai e docente di Storia del giornalismo all’Università degli studi Bergamo, autore per Laterza di diversi libri sugli Stati Uniti («Storia degli Stati Uniti» e il più recente «Da Wall Street a Big Sur: un viaggio in America» che attraversa anche il Missouri).

«Ci sono delle ragioni storiche per questa situazione – spiega Bergamini –: i neri sono stati deportati negli Stati Uniti come schiavi, non sono emigrati in libertà e la loro storia è una storia di segregazione e sfruttamento durata almeno tre secoli dal ’600 alla metà degli Anni Cinquanta. Un percorso di uguaglianza nei diritti tra bianchi e neri, quindi, è stato sancito a livello legislativo in tempi relativamente recenti e stenta ad affermarsi nella vita di tutti i giorni con forti differenze tra i vari Stati».

A fare la differenza tra bianchi e neri non è solo il colore della pelle, ma più di tutto la differenza di condizioni socio economiche: «Il patrimonio medio di un nero è dieci volte inferiore a quello di un bianco – spiega il giornalista – e un giovane afroamericano su nove tra i 20 e i 35 anni ha più probabilità di finire in prigione che all’università. La comunità nera vive isolata nei ghetti delle periferie. Ci sono poi forti differenze nell’integrazione tra chi vive in Alabama e chi a New York. I giovani però sono più integrati e la demografia gioca a favore di un nuovo equilibrio».

Un terribile risveglio quello dei fatti di Ferguson per la comunità internazionale che ha sempre guardato agli Stati Uniti come a una madre accogliente nei confronti di popoli di tutte le nazionalità soprattutto dopo l’elezione del primo presidente afroamericano. «L’elezione di Obama – spiega Bergamini – ha avuto un grande valore simbolico ma nei fatti le condizioni dei neri sono peggiorate a causa della crisi economica. Barack Obama non ha varato leggi ad hoc per i neri ma alcune riforme,

come quella del sistema sanitario, hanno avvantaggiato le fasce più deboli e quindi i neri. Obama si è sempre presentato come un leader moderato, di tutti gli americani, non solo dei neri o delle minoranze. Nei suoi confronti c’erano attese eccessive e anche se ha fatto molto in materia di diritti, come nel caso della denuncia delle torture della Cia durante il governo Bush, il sistema si è dimostrato più resistente al cambiamento di quanto egli stesso potesse immaginare». «Come negli Stati Uniti anche in Europa e in Italia – conclude Bergamini – il motore dell’integrazione è la crescita economica: quando rallenta tutto diventa più difficile. In ogni caso ho l’impressione che l’Italia possa considerarsi poco razzista rispetto agli Stati Uniti e debba cercare un proprio modello di integrazione».