Basket, il derby di Paolo Vittori «Varese-Milano, ruvida poesia»

VARESE Cantore di un basket che fu, memoria storica, monumento, icona del passato: Paolo Vittori. Viene naturale pensare a lui, alla vigilia del derby: perché in pochi saprebbero presentare una partita così. Lui che ne ha vissute tante. Lui che i derby li ha giocati sia con la maglia di Milano che con quella di Varese. «Son passati ormai quarant’anni – dice – e di cose ne son cambiate tante. Una cosa non è cambiata: l’emozione che si prova alla vigilia».

Varese-Milano, quarant’anni fa.
Tutti la sentivamo in modo particolare. Perché noi non eravamo solo giocatori, ma anche ragazzi nati e cresciuti a Varese e Milano. La rivalità ce l’avevano insegnata negli anni delle giovanili. E poi, non eravamo emozionati solo noi.

Chi altri?
Tutti. Gli uomini della società, che se avessero potuto sarebbero scesi in campo. Gli allenatori, che giocavano un ruolo da protagonisti assoluti, tanto che ancora oggi si parla dei derby di Garbosi, Tracuzzi, Gamba, Nikolic. E anche i giornalisti, che nella settimana che portava alla partita riempivano paginate e aumentavano le tirature.

E l’attesa nelle città?
La gente era coinvolta, esattamente come tutti noi. Venivamo fermati per strada, leggevamo la tensione negli occhi di ogni tifoso, era una partita che si giocava davvero tutti insieme.

Aneddoti.
Quando giocavo a Milano, qualche giorno prima del derby Rubini mi telefonava: «Mona de gorizian – mi diceva – adesso tormentiamo un po’ la gente». Poi chiamava i giornalisti per rilasciare dichiarazioni di guerra: «Daremo una lezione ai provinciali varesini», diceva. Ma non per cattiveria: voleva creare l’ambiente giusto.

E una volta sul parquet?
Continuava il suo show personale, tutto per provocare la gente. Andava in campo per primo – «Entro me», diceva – e con gesti teatrali si levava il cappotto di cammello. La gente impazziva, lo copriva di insulti e fischi, così quando entravamo noi giocatori non ci filava nessuno: avevano già esaurito la rabbia.

Sponda varesina?
Ossola e Rusconi telefonavano ai responsabili dell’Ignis Club e si fingevano tifosi milanesi: «Vi facciamo la festa», «Vi massacriamo». Tutto per farli arrabbiare e caricare un po’ l’ambiente.

I derby di Paolone Vittori?
L’imperativo era vincere, sempre e comunque: a me non importava segnare cinque punti o trenta. Contava che la squadra vincesse, e basta. E in quei derby io ricordo il grande rispetto.

Spieghi.
Ci si sfotteva, ci si provocava, a volte si litigava pure. Ma ci si rispettava tutti, anche perché i giocatori di Ignis e Simmenthal poi si ritrovavano in nazionale per giocare e vincere insieme.

Varese-Milano, oggi.
Allora c’era un basket meno fisico e più umano. Oggi è il contrario. E secondo me era meglio ai miei tempi.

Chi vince, domani?
Io dico sempre che vince Varese, e lo dico perché ci credo. A volte questa squadra ci fa arrabbiare, ma questi ragazzi il cuore ce lo mettono sempre.

La forza di Varese?
Carletto Recalcati: gli voglio bene, davvero. Fu mio compagno alle Olimpiadi del ’68, e purtroppo giocò poco perché gli venne un’infezione: ci mancò molto, perché era un gran tiratore.

E in panchina come lo vede?
Non ha più nulla da dimostrare, ha vinto tutto. Purtroppo però la gente non si ricorda di ieri, guarda solo a oggi: siamo sempre in discussione. Anche se certe contestazioni non le capisco.

Francesco Caielli

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