La magia di quelle trasferte oltre cortina. «Ossola e gli aerei, Nikolic con Playboy»

Stasera la Pallacanestro Varese gioca a Minsk. Con Galleani riviviamo i viaggi verso Est della Ignis: «Era difficile trovare cibo commestibile, ci sfamavamo con i salami portati da casa. E la Nutella»

Quando capita, al giorno d’oggi e in qualsiasi professione si prenda in considerazione, di fare un viaggio di lavoro in Europa e di aver bisogno di un visto per entrare nel Paese di destinazione? Mete del genere si contano sulle dita di un mano. E poi quali città europee, ormai, non sono collegate direttamente all’Italia da una tratta aerea ma abbisognano di scali e di voli lunghi e faticosi? Come sopra: poche, pochissime.

Minsk è una trasferta d’altri tempi e la truppa biancorossa lo ha provato – e probabilmente lo sta provando in queste ore – sulla sua pelle. La capitale della Bielorussia dove oggi Wayns e compagni disputeranno la quarta giornata del secondo turno di Fiba Europe Cup ancora possiede quel “fascino” d’oltre cortina capace di rendere avventuroso e inusuale il viaggio declinato a una partita di pallacanestro. Gli adempimenti burocratici necessari a partire (per l’ottenimento del visto la Bielorussia chiede addirittura l’esibizione

di un invito da parte di un cittadino o di un’entità commerciale risiedente nel Paese), le difficoltà del percorso e tutti quei particolari che ancora profumano di lontananza dal mondo occidentale diventano però anche uno spunto per ricordare il fulgido passato della storia cestistica varesina. Se ci sono dei luoghi in cui il mito cittadino del parquet ha collezionato galloni d’immortalità sono proprio quelli dell’Europa dell’est, quelli che appartenevano al blocco comunista sovietico prima della caduta del Muro di Berlino e che agli atleti delle Varese di una volta apparivano come paesaggi lunari. In merito l’epopea di Ignis e Mobilgirgi degli anni ’70 è ricca di aneddoti sensazionali quanto le vittorie che quelle squadre sapevano ottenere. E il narratore d’eccellenza non può che essere colui che ha vissuto ogni grammo della leggenda: Sandro Galleani.

La bandiera biancorossa non si fa pregare nello snocciolare le sue chicche d’oriente in salsa cestistica: «Mosca voleva dire Armata Rossa, ma anche viaggi che non sapevi come iniziavano o finivano. Io ho un ricordo pieno d’angoscia: a un controllo documenti nell’aeroporto della capitale sovietica fecero passare tutti tranne me. Il mio passaporto non aveva il timbro a freddo richiesto dalla burocrazia, probabilmente in questura si erano dimenticati di metterlo. Davanti alla prospettiva di passare un’intera notte in aeroporto, un loro militare si impietosì e alla fine mi lasciò passare. Con mille raccomandazioni». L’Urss voleva dire davvero “altro mondo”: «Ho nella mente come fosse ieri la fila fuori dai negozi. In uno di quei viaggi ci accompagnava una hostess e le chiesi il perché di quelle code. Mi rispose con la più grande naturalezza possibile: «Sono tutti in fila per compare la carne…». Per lei era normale. Poi mi ricordo l’assenza di bambini o ragazzini intorno a noi: le autorità sovietiche non volevano che vedessero quello che era il modo di vivere di noi occidentali». Andare oltre cortina, però, non significava solo Russia e dintorni: «Il viaggio peggiore fu probabilmente in Bulgaria. Giocavamo a due ore di pullman da Sofia, in un luogo che raggiungemmo attraverso una strada piena di buche. Arrivammo in un albergo che non aveva nemmeno le piastrelle del bagno allineate e poi c’era quella puzza di riscaldamento a carbone che ti entrava nel naso. Una volta sistemati, andammo subito in palestra. Con noi, a quel tempo, giocava Charlie Yelverton: al primo palleggio che fece la palla rimbalzò fuori dal campo, perché le assi del parquet erano tutte sconnesse». Da aprire c’è il capitolo su cibo e dintorni: «Io ero un curioso e cercavo di mangiare tutto – racconta Galleani – Ma i ragazzi non riuscivano a tollerare quelle pietanze che in realtà erano sempre le stesse: zuppa con il cavolo o verza e una carne cucinata malissimo. Allora era un fiorire di salamini e formaggi portati da Varese: si sfamavano con quelli. In una tournée estiva in Cina – dovrebbe essere stato il 1985 – riuscimmo magicamente a trovare la Nutella: per giorni i giocatori mangiarono solo quella e si riempirono di foruncoli sul viso».

Al mito Aldo Ossola è invece legato un altro episodio curioso, sempre sulla strada per Mosca: «Era il 1978 e c’eravamo già qualificati per la finale di Coppa Campioni. Mancava ancora una partita e alla trasferta si presentarono in nove: Morse aveva la febbre, mentre Bisson aveva dimenticato il passaporto a casa. Così conciati facemmo scalo a Vienna: appena decollato il secondo volo, fummo costretti ad un atterraggio di emergenza. Ho impresso lo sguardo terreo di Ossola: toccato terra prese armi e bagagli e tornò a Varese in treno. Confesso che anch’io ma la feci sotto quella volta». Nei graffiti memorabili di quelle imprese hanno piena cittadinanza anche i leggendari scherzi che la truppa non mancava di fare.Anche Galleani ne ricorda una entrata nella hit parade: «Non so più in quale dogana dell’est fossimo, ma qualcuno mise la pagina centrale di Playboy nella giacca di Aza Nikolic. Vi lascio immaginare la sua faccia quando venne fermato al controllo…».