Sergio Leone: non solo un pugno di film

«Al cuore, Ramón… se vuoi uccidere un uomo devi colpirlo al cuore», e un pistolero con la ghigna beffarda di Clint Eastwood non può avere torto, come apprende il povero John Wells nel finale di “Per un pugno di dollari”. Sergio Leone, invece, puntava agli occhi, inquadrava quelli dei suoi attori in primissimi piani mai osati nel cinema, per colpire gli sguardi del pubblico in sala: sono passati 25 anni dalla scomparsa del regista (morto il 30 aprile del 1989), e i suoi film sono sempre apprezzati dai critici di tutto il mondo, studiati inquadratura per inquadratura dai cineasti in erba, amatissimi dal pubblico che ne cita a memoria le battute e ne rievoca i momenti più epici.

Quentin Tarantino, ad esempio, si può riconoscere in ognuno di questi profili e anche se fu Sergio Corbucci a firmare l’originale “Django”, la versione “Unchained” dell’autore di “Pulp fiction” riconosce l’immenso debito con il maestro romano, il solo e l’unico… Bob Robertson.

Cinquant’anni fa, nel 1964, l’idea di realizzare un western di produzione europea era tanto innovativa quanto azzardata. Era impossibile battere gli americani sul loro stesso campo: l’epopea della conquista del Grande Ovest, i cowboy e gli indiani, gli assalti alla diligenza e le gang di banditi, gli sceriffi tutti d’un pezzo e le donne perdute, ma dal cuor d’oro appartenevano a quell’altra parte dell’Oceano, ai John Ford, agli Howard Hawkes. Davanti alla macchina da presa avresti trovato un John Wayne o un Gary Cooper, di certo non Mastroianni o Manfredi. Ma non fu per timidezza che Leone firmò “Per un pugno di dollari” con un nome fittizio: in quei tempi pionieristici, puntando a “fare cassetta”, si pensò che bastasse ribattezzarsi “all’americana” per convincere il pubblico in sala di stare assistendo a un nuovo eccitante film a stelle e strisce.

Bob Robertson in omaggio al padre, Vincenzo Leone, che si firmava Roberto Roberti. John Wells, invece, era un nome come un altro per mascherare Gian Maria Volonté, attore teatrale senza troppa visibilità cinematografica, all’epoca, abbastanza perché fosse credibile nel ruolo del crudelissimo Ramón. «Sto facendo un filmetto in fretta e furia per pagare i debiti. Figuratevi che è un western italiano, e si intitola ‘Per un pugno di dollari’. Lo faccio veramente per un pugno di dollari, ma certo non può nuocere alla mia carriera. Mi hanno conciato come un matto, sono irriconoscibile, e nei titoli di testa avrò persino uno pseudonimo americano, John Wells. Insomma, non corro alcun rischio. Chi volete che vada a vederlo?».

Già, chi? All’inizio il successo non fu immediato, ma il passaparola fece il miracolo, trasformando quella piccola coproduzione italo – ispano – tedesca nel “caso” cinematografico del 1964. Nacque un genere, lo “spaghetti Western” che, per la verità era già nato, ed era anche florido. Basti pensare che nello stesso anno escono pellicole come “Le pistole non discutono” di Mario Caiano, “La battaglia di Fort Apache” di Hugo Fregonese (con Rik Battaglia!), “Cinquemila dollari sull’asso” di Alfonso B.

Branda e “Minnesota Clay” di Sergio Corbucci. Non è un caso se nessuno di questi titoli ha lasciato il segno. Mancavano della visionarietà di Leone che, in questo primo film (è vero, aveva terminato “Gli ultimi giorni di Pompei” e girato per intero “Il colosso di Rodi”, ma si tratta di due false partenze) non è estrosissimo come sarà in seguito, anzi: le inquadrature sono più strette solo per mascherare la povertà di certe scenografie, gli esterni girati a Colmenar Viejo, un quarto d’ora di macchina da Madrid, abbastanza credibile come Messico se non ci si sofferma troppo a guardare i monti sullo sfondo.

E, naturalmente, agli altri film mancava Clint Eastwood. Non era un nome falso, arrivava dagli Usa, ma non era un divo. E non era neppure una prima scelta: Leone sognava l’inarrivabile Harry Fonda (lo ebbe qualche anno dopo per “C’era una volta il West”), si sarebbe accontentato di James Coburn o Charles Bronson, visti ne “I magnifici sette”, ma tutti costavano troppo.

Non il buon Clint che per indossare il poncho, il cappello e il sigaro si accontentava di una cifra modesta. Poi il successo travolse tutti e niente fu come prima. Per completare la piccola truffa ai danni del pubblico, il doppiaggio italiano sostituì le voci degli attori con quelle dei classici doppiatori esperti nelle pellicole di “Ollivùd”.

Perfino Volonté non ha la sua voce, inadatta, ma quella di Nando Gazzolo. Ed è sintomatico che sia Enrico Maria Salerno a parlare per Clint: nello stesso anno del “Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, la voce che invoca «Padre mio, perché mi hai abbandonato?» e «Al cuore, Ramón, al cuore» è la stessa.

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