I primi sessant’anni di Pin Girometta. Tra osterie, amuleti e feste di paese

Tra ricostruzione e leggende popolari, la maschera nacque dalla fantasia dell’incisore varesino Giuseppe Talamoni

La maschera del Pin Girometta nasce esattamente sessant’anni fa dalla fantasia di Giuseppe Talamoni.

Il grande artista varesino, incisore, commediografo, storico delle tradizioni popolari e tantissimo altro ancora – fu lui a fondare il Gruppo Folcloristico Bosino e la Filodrammatica e a raccogliere i canti delle campagne varesine nel Canzoniere Bosino – aveva infatti partecipato ad un concorso pubblico indetto dalla Famiglia Bosina nel 1956, in cui si chiedeva agli artisti locali di disegnare un bozzetto per la realizzazione della maschera di Varese.

Ai tempi, infatti, il Re Bosino era caduto nel dimenticatoio e Varese, uscita da pochi anni dalla guerra, aveva bisogno di un rilancio positivo d’immagine. Arrivarono dieci bozzetti: la spuntò Talamoni con un’idea che nasceva dall’indagine nelle cronache locali e dai riscontri nella tradizione orale.

Fra osterie e chiacchiere di paese aveva scoperto che era esistito nel Settecento un merciaio stravagante che girava per i cortili delle cascine e veniva chiamato come intrattenitore nelle feste di paese. Secondo la ricostruzione fantasiosa di Talamoni, ammantata di leggenda popolare, questo personaggio – Pin da Giuseppe, come Talamoni del resto – era originario della Valbossa; in maggio, all’epoca delle processioni, saliva al Sacro Monte per vendere un amuleto chiamato girometta, che l’autore immagina con forma stilizzata di un soldatino, impastato con farina e acqua e fatto cuocere in forno: veniva messo sul camino per propiziarsi la prosperità del focolare.

Due furono le figure che ispirarono Talamoni. Il primo fu il suo carissimo amico Enrico Vanetti, il responsabile dell’officina del Calzaturificio di Varese, grandissimo sportivo e attore della Filodrammatica: diede al Pin le sue sembianze di uomo magro e atletico e anche l’onore di impersonarlo per primo nel Carnevale Bosino.

Il secondo è l’archetipo del pellegrino delle nostre terre, il romeo per definizione: Sant’Imerio, il cui sarcofago era stato riscoperto da poco e a cui dal 1927 era stata dedicata la piccola chiesa altomedievale di Bosto.

L’iconografia del Tatti parla chiaro: basta un semplice confronto per comprendere che gli studi di quel genio del Talamoni erano molto più profondi di quanto si sospetti, e che la nostra città, nella sua visione mitica e anche un po’ profetica – si dice che sapesse leggere la mano con grande abilità – ha sempre avuto bisogno di camminatori per sopravvivere.