Levare il dialetto non farà di noi una metropoli. Tenerlo, invece, ci renderebbe ancora più unici

L’editoriale di Kevin Ben Alì Zinati sulla volontà di alcuni gruppi di maggioranza varesini di togliere la doppia lingua dai cartelli

Perché mentre esci dal parcheggio e ti tagliano la strada in macchina, tu, quel tipo – o tipa – lo mandi a… “ciapà i ratt”. Perché il dialetto, nel bene o nel male, è diventato ormai vocabolario. Quindi oggi, la domanda se toglierlo o meno dai cartelli bilingue, risulta un dubbio degno quantomeno delle paranoie di Amleto.

Lo leviamo?

Però il dialetto definisce parte della nostra identità. È una lingua – sì, lo è, a tutti gli effetti – che esiste ancora prima della destra e della sinistra, del Pd o della Lega, di Renzi o di Bossi. È una lingua con cui si è dialogato, pregato, fatto guerre, giocato. È una lingua che ha fatto la storia. La nostra. Italiana. Varesina.

Lo leviamo?

Però il dialetto è musica. I canti popolari dei nostri trisnonni passati ai bisnonni fino al papà di tua mamma sono di una musicalità incredibile e di una semplicità pazzesca, Van De Sfroos un San Siro lo ha riempito, il neomelodico napoletano sta prendendo sempre più piede nella penisola, attirando l’interesse non dei compositori di musica classica, ma dei giovani, del rap e dell’elettronica.

Però il dialetto significa avvicinarci ancora di più ai nostri nonni e alle nostre nonne.

Alle loro storie, ai racconti delle loro vite e di quelle dei nostri genitori, delle guerra, del Pippo che mitragliava sulle case, del “pan col latt e zucher” perché non c’erano soldi per mangiare. Conservarlo e soprattutto valorizzarlo significa tenere viva anche una parte di noi.

Però il dialetto non provincializza. Siamo tutti d’accordo che per molti aspetti – omosessualità, politica e oggi ci mettiamo goliardicamente pure il calcio – il nostro Paese è indietro anni luce rispetto alla sola Europa, figuriamoci il resto del mondo. E il dialetto, in tutta questa corsa a chi è più moderno, non puzza di naftalina. Levarlo non ci trasforma in una metropoli. Tenerlo, invece, ci dà una peculiarità.

Lo leviamo?

Però il dialetto anche se non fa turismo – ed è vero – piace, diverte, incuriosisce, persino i giovani (lo dicono anche i quotidiani).

Però il dialetto è storia, cultura. E anche letteratura. Dalle commedie veneziane di Goldoni alle poesie in milanese di Delio Tessa, fino all’amore dell’aulico D’Annunzio per il “basso” vernacolo. Tre nomi per non citarne migliaia, per dire che questa lingua è stata considerata “degna” da chi con le parole ha fatto meraviglie.

Però il dialetto è serie tv. Perché il Libanè e er Freddo sono Romanzo Criminale, perché Gomorra senza Malammore non è più Gomorra.

Però il dialetto è al centro di studi, ricerche, convegni di professoroni che comparano i vernacoli per studiare l’evoluzione dell’italiano.

Però il dialetto è nelle pagine Facebook, nei copioni degli youtuber, nelle pubblicità. Perché i Baci Perugina vogliono metterlo nei loro cioccolatini.

Lo leviamo?

Però il dialetto ce lo invidiano. Come tanti dei nostri patrimoni. Che invece di valorizzare, buttiamo via. Ecco, questa volta anche no.

Però continueranno sempre a tagliarti la strada in macchina mentre esci dal parcheggio. E continueremo sempre a mandare quel tipo, o quella tipa, a “ciapà i ratt”.