«Noi, lupi imprigionati che pensavano solo al cibo»

La testimonianza della scrittrice Francine Christophe, che conobbe l’orrore della deportazione

Uno spettacolo che ha suscitato forti emozioni quello andato in scena due volte ieri, in occasione delle celebrazioni della liberazione del 25 aprile, al “Teatro Castellani” di Azzate e presso la Sala Montanari a Varese: in memoria della Shoah, tra musica, teatro e danza, per la regia di e , è stato presentato “Da grande voglio fare teatro”.

Una toccante performance teatrale (ispirata al libro di , “Non sono passata per il camino. Storia di una bambina “privilegiata”, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti 1942- 1945”, pubblicato in Italia da Pietro Macchione) a cura del gruppo Artistichorus del Liceo Artistico “Angelo Frattini” di Varese, inscenata davanti a una folta platea composta dagli studenti delle scuole di Azzate, Buguggiate e Cantello.

All’inizio e a conclusione della rappresentazione teatrale, l’esecuzione al violino della importante violinista

E non si trattava di un violino qualunque, ma del “Violino della Shoah” dell’ingegnere milanese con una grande storia da raccontare. «Il 6 dicembre 1943 il violino fu prelevato dai tedeschi a Tradate: apparteneva ad Eva Maria – ha raccontato il proprietario Carutti – che, con il fratello Enzo Levi e la madre Egle Segre fu deportata in Germania, dove morì nelle camere a gas. Solo il padre di Eva Maria fu salvato dal capostazione di Tradate. Il violino sopravvisse e la sua voce è arrivata in Italia nel gennaio del 1945, messo in salvo dall’armata rossa».

Il violino custodiva un segreto: «Nel violino è stato trovato insieme al numero di matricola del deportato Enzo Levi 168007, una frase in tedesco “inno alla musica che rende liberi” e un canone inverso, un motivo musicale che si legge da destra e da sinistra e che non ha mai fine. E una lettera russa che evoca la Shoah, come mi ha spiegato un violinista russo».

Per Carutti un importante incontro quello tra il Violino della Shoah e Francine Christophe, la sopravvissuta al campo di concentramento di Bergen Belsen, in un luogo importante: «Ad Azzate, dall’8 settembre del ’43 al 25 aprile del 1945 io rimasi nascosto, grazie all’ospitalità della contessa Elena Castellani, la stessa che donò il teatro in cui ci troviamo oggi». «Quando sono stata liberata – ha spiegato in francese la scrittrice Francine, al suo fianco la traduttrice Manuela Vasconi –

avevo 12 anni e avevo vissuto quindi un quarto della mia vita da prigioniera, in un campo di concentramento». Gli studenti, tra le numerose domande, hanno chiesto a cosa pensava quando si trovava a Bergen Belsen: «Un deportato non pensa a grandi cose, non ha pensieri filosofici, è prima di tutto un individuo che ha fame. Un deportato non pensa che a mangiare, mangiavamo ortiche e zuppa di rapa rossa, eravamo come bestie e diventavamo come lupi che escano dalla foresta con un unico pensiero: quello di procurarci cibo». «Nella vita si possono avere prove terribili, come nel mio caso, ma se si riesce a sopravvivere a queste prove terribili, si riesce a vivere. E la vita è bella. Io ho un marito che amo da sessant’anni, due figli, quattro nipoti e quattro bisnipoti, questa è la mia vittoria più grande perché Hitler non voleva che noi ebrei avessimo discendenti». «La storia è scritta in stampatello, ma a volte si scrive in corsivo – ha spiegato il sindaco di Azzate, – come questo caso perché sono le storie vissute dalle persone, che danno la testimonianza diretta, essenziale e personale, di ciò che è avvenuto».