Torna il “Monti giusto”: «Lo faccio per Ettore…»

Emanuele Monti, consigliere regionale leghista, si racconta: la politica, il lavoro, la famiglia

A volte capita di trovarsi davanti una persona con la quale, al di là dei colori e di come la si pensi, è piacevole parlare di vita e di politica. Emanuele Monti è giovane e della gioventù ha la passione e la voglia di fare cose. Consigliere regionale per la Lega, pronto a ricandidarsi per le elezioni che arriveranno probabilmente a marzo, si parla davanti a un caffè. Così.

L’avevo pensato io, in contrapposizione a Mario Monti che a quell’epoca era Presidente del Consiglio e rappresentava quella politica di tecnocrati calati dall’alto che non mi piaceva e non mi piace. Fu una campagna elettorale breve ma intensa, perché venni candidato all’ultimo momento: i giochi politici erano fatti, io ero una sorta di “riempilista”. Decisi di provarci facendo quello che sapevo fare meglio: andare sul territorio, parlare con la gente.


Bene perché in poche settimane di campagna elettorale alla fine presi più di mille preferenze. Male perché risultai il primo dei non eletti e rimasi fuori per duecento voti.

Un po’ sì. Perché la politica non ammette errori o repliche. Durante la campagna elettorale sei sempre sotto i riflettori, poi dopo il voto la luce si spegne: un po’ come l’occhio di bue del teatro. Mi sarei aspettato, dopo il mio risultato, una telefonata: qualcuno che mi dicesse «bravo, grazie». Invece la realtà è diversa: alla fine, resti solo.

Avrei potuto lasciar perdere: avevo un lavoro gratificante, non avevo bisogno della politica. Però la politica mi piaceva, per cui ho continuato a farla: ho continuato a stare sul territorio, a parlare con la gente.

Due anni fa, con le dimissioni di Francesca Brianza che con la nomina ad assessore non riusciva a mantenere anche il ruolo di consigliere. Ero il primo dei non eletti, sono entrato in consiglio.


Probabilmente, per caso. Era il primo anno del liceo, avevo quattordici anni. Fuori dal Ferraris un giorno vedo un ragazzo che distribuiva dei volantini della Lega: era Sergio Terzaghi, che invitava gente alle riunioni dei Giovani Padani. Io presi il volantino e ci pensai su un po’: l’idea di andare a vedere cosa succedeva a quelle riunioni mi stuzzicava. Quindi, una sera, io e un amico decidiamo di andarci.


Pensavamo di trovare un sacco di gente, di metterci in fondo alla sala e ascoltare. Invece, quella sera eravamo in quattro: io, il mio amico, Serhio Terzaghi e Marco Pinti che probabilmente era anche lui alla sua prima riunione. È iniziato tutto così. Così abbiamo dato vita ai Giovani Padani che allora praticamente non esistevano, e che poi sono stati la linfa del movimento e i protagonisti di quel cambio generazionale che all’interno del mio partito è stato allo stesso tempo difficile e importante: da quel gruppo sono uscite figure che oggi sono determinanti, da Matteo Salvini in giù.


Intensi, frenetici, splendidi. A diciotto anni ero coordinatore federale dei Giovani Padani, mi capitava di prendere la macchina da Varese e andare a Bolzano per una riunione di un’ora, per poi tornare a casa a notte fonda. Mentivo a mia mamma: dicevo che andavo in discoteca, invece ero in giro per la Lega.


Ho finito il liceo, mi sono laureato a pieni voti alla Liuc, ho iniziato subito a lavorare in una multinazionale che mi ha subito messo in faccia il mondo reale: responsabilità, impegno, sacrificio. Da quella multinazionale non sono mai uscito, e ora occupo una posizione importante.

No, e ne sono fiero. Io credo che si possa e si debba fare politica pur mantenendo il proprio lavoro, e credo che questo rappresenti un valore aggiunto. Ti permette di non scendere a compromessi, di non dipendere dalla politica, di non dipendere da una sedia. Ma soprattutto ti permette di restare ancorato alla realtà, alla gente e ai suoi problemi.


Ascoltare. E dire: «Io ci sono e provo a darti una mano». Perché la politica urlata non fa altro che amplificare la paura della gente. Fare politica significa esserci, sempre.

Ho la mia compagna Graziella che tra qualche mese mi renderà papà di un bambino che chiameremo Ettore.

È una lunga storia ma la faccio breve. Perché l’ha scelto Graziella.

Il perno attorno a cui ruota la mia esistenza, il mare su cui galleggio. Aprire la porta di casa la sera e sapere che c’è lei ad aspettarmi, dà senso a ogni giornata.


No, tutt’altro. Ma spero che alle prossime elezioni mi voti…

Credo che il tema più importante sia l’immigrazione: che va affrontato seriamente e non a colpi di slogan. Quelli vanno bene in campagna elettorale, ma poi bisogna pensare a risposte concrete.


Cambiare l’obiettivo. Ci focalizziamo su quello che accade nel Mar Mediterraneo, e ignoriamo la strage che quotidianamente avviene prima che i disperati salgano sui barconi. Nei viaggi della morte attraverso il deserto. I morti in mare sono una goccia in una tragedia, che preferiamo ignorare. Dobbiamo lavorare su quello e sull’integrazione: la gestione dell’accoglienza dev’essere gestita dal territorio e non calare dall’alto, perché la gestione attuale non fa il bene di nessuno. Non integra, e rallenta il Paese. Ho visitato classi di scuole medie, anche a Varese, dove il 70 per 100 degli alunni è straniero: questa non è integrazione, è un problema.

.

Le tante piccole cose: un “grazie” sussurrato da una coppia di anziani, il sorriso di una famiglia, la pacca sulla spalla di un compagno di partito, la birra bevuta dopo una riunione interminabile. Piccole tessere che hanno composto un mosaico bellissimo.

Perché noi siamo fortunati: siamo nati qui e non altrove. Abbiamo avuto una fortuna sfacciata, a nascere qui: ecco, un po’ di questa fortuna dobbiamo restituirla, abbiamo il dovere di fare qualcosa per gli altri e per chi verrà dopo di noi. Diciamo che a questa domanda mi piace rispondere così: mi candido e faccio politica per Ettore, e per tutti quanti i suoi coetanei.