«Uno dei coltelli può aver ucciso Lidia 29 anni fa»

Gianluigi Nuzzi e i retroscena del caso Macchi. Il conduttore di Quarto Grado: «Rispetto e verità. Prove indiziarie, ma qualcuno ha taciuto»

– «Uno dei coltelli ritrovati, secondo fonti giudiziarie, sarebbe compatibile con le ferite inferte a Lidia». Lidia è , chi parla è , giornalista Mediaset e conduttore della popolarissima trasmissione “Quarto Grado” in onda su Rete 4 ogni venerdì e che sul caso dell’omicidio di Lidia Macchi ha fatto più di uno scoop. Il coltello in questione è uno di quelli trovati al parco Mantegazza di Masnago sequestrato per ordine del sostituto procuratore generale di Milano che coordina le indagini lo scorso 15 febbraio.

, la super teste che proprio guardando Quarto Grado riconobbe come appartenente a , 49 anni di Brebbia, arrestato lo scorso 15 gennaio con l’accusa di aver violentato e ucciso 29 anni fa la giovane studentessa varesina, la grafia con cui fu scritta la lettera anonima “In morte di un’amica”, ha dichiarato di aver accompagnato Binda al parco Mantegazza qualche giorno dopo il delitto perché questi doveva buttare un sacchetto di carta. La lettera recapitata a casa della famiglia Macchi il 10 gennaio 1987 giorno delle esequie di Lidia,

uccisa con 29 coltellate il 5 gennaio del 1987 al Sass Pinì di Cittiglio dove il cadavere fu ritrovato il 7 gennaio di quell’anno, da sempre è considerata dagli inquirenti una sorta di confessione dell’assassino di Lidia. Il sequestro del parco è stato un estremo tentativo di ritrovare l’arma del delitto. Quasi impossibile concretizzare la speranza, eppure «ci sarebbe una corrispondenza tra uno dei coltelli e le ferite inferte a Lidia». È molto prematuro parlare di ritrovamento dell’arma del delitto: ogni reperto acquisito durante gli scavi nel parco dovrà essere pulito e analizzato. Si tratta di sei coltelli e un falcetto, arrugginiti e coperti di terra. La corrispondenza da sola non basta (Lidia sarebbe stata accoltellata con un piccolo stiletto) bisognerà cercare approfonditamente.

Sul caso Macchi, comunque, Nuzzi ha le idee estremamente chiare. «Due piani di lettura. Abbiamo un indagato, Binda, sottoposto a un provvedimento restrittivo fondato su elementi concordanti e convergenti», spiega il giornalista Mediaset. Si parla però di prove indiziarie che, senza ulteriori conferme, potrebbero non reggere ad un processo da ergastolo. «Molti processi indiziari si sono conclusi con delle condanne» spiega ancora Nuzzi. E alla domanda su eventuali pressioni a carico di Binda per spingerlo ad una confessione replica: «Nessuna pressione su di lui. Semmai chi ha subito una vergognosa pressione è stata la famiglia Macchi nel corso di 29 anni al cospetto di un’inchiesta condotta male».Il secondo piano di lettura riguarda il silenzio. «Il silenzio di poche persone, che possono essere considerate conniventi con l’assassino da decenni – spiega Nuzzi – L’autorità giudiziaria sta, a mio parere, lavorando molto e bene anche su questo fronte. I termini della prescrizione per il favoreggiamento stanno per arrivare. Si lavora affinchè anche chi abbia in qualche modo coperto l’accaduto sia messo di fronte alle proprie responsabilità».Nuzzi però spiega: «Sbagliato attaccare Comunione e Liberazione. In sede penali le responsabilità sono del singolo». Quindi chiude con dei quesiti di rilievo: «C’è davvero qualcuno che si è tenuto le prove in cassaforte per 30 anni? E perché quei vetrini con il Dna del presunto assassino, che oggi sarebbero fondamentali, sono stati distrutti?».