L’amore per la propria terra è una bestiola perennemente in agguato.
Ti convinci di poterla ammansire, per mantenerti distaccato e obiettivo. E invece quella ti assale di continuo, ogni volta che sul grande schermo compare un volto amico, o il bar della piazza, o il panorama che fin da piccolo sei abituato ad ammirare. Allora sorridi, ti ammorbidisci e guardi con più simpatia a ciò che ti raccontano, ai personaggi che scorrono, agli aneddoti che sfilano, agli intrecci che si dipanano.
Il microcosmo che non c’è
Succede anche con Il Pretore, film diretto da Giulio Base, fortemente voluto da Sarah Maestri, ispirato al romanzo di Piero Chiara, interamente girato nel varesotto e disseminato di facce (a noi) note. Poi però tocca rinsavire. Alzare l’asticella della curiosità. E guardare al film per quello che è (o pretende di essere): un’opera cinematografica, una commedia di costume, uno spaccato ironico che ricalca la vocazione chiaresca al racconto di provincia. Quel microcosmo che l’autore de La Spartizione amava farcire di morbosità, meschinità, forzate sottrazioni ed esagitati accumuli.
In fondo, non dimentichiamolo, il valore aggiunto della prime e migliori commedie tratte da Chiara (quelle di Lattuada e di Risi) fu proprio quello: lo scarto territoriale, la dimensione lacustre, la componente paesaggistica che smetteva di essere sfondo e diventava attrice, co-protagonista e complice di quelle dinamiche umane che accoglieva, abbracciava, spiava e talvolta soffocava.
Tutto questo, però, nel Pretore viene sacrificato. Il contesto torna ad essere semplice cornice, asettica e patinata. L’ambiente non interagisce, non ingabbia, non eccita, non reprime, non pulsa.
Certo, i protagonisti non aiutano. Pannofino riempie la scena, ma gigioneggia, deborda, rinuncia alla costruzione di una solida maschera per rifugiarsi in una più comoda caricatura.
Maestri centra la prima parte, proponendo una figura esile, emaciata, sofferente nel corpo e nello spirito. Poi, però, fatica a tratteggiare la svolta. L’esplosione dei sensi che scuote Evelina dovrebbe trasmettere tutto l’ardore della passione ritrovata. Invece, calma piatta. Perché non bastano uno strillo, il nudo e qualche smorfia per dare credibilità, sangue, forma e colore a un’anima opacizzata dalla prolungata assenza.
Lo stesso dicasi per il partner, Garau, convincente nella recitazione implosa, ma debole nei risvolti di più accesa e umana carnalità. E non si tratta di ostacoli da poco.
L’arte del racconto filmico raggiunge l’apice quando fa coincidere gli opposti, quando il respiro dei campi lunghi riesce si fonde con l’intimità del primo piano. Ed è proprio quest’ultimo aspetto che Il Pretore e i suoi attori non riescono a regalarci.
Bene i personaggi di contorno
Più intensi alcuni personaggi di contorno: la cinica Miglio, la felina Caprioglio, l’esilarante Milano, l’ineffabile Gorini e, dulcis in fundo, l’inedito Cavallari. Una carrellata di caratteristi capaci di scartare, rispetto a un impianto narrativo altrimenti stanco. L’impressione è che siano loro la componente più cinematografica del Pretore, insieme all’indubbia qualità della confezione, della fotografia, dei costumi. Il resto, spiace dirlo, appare squisitamente televisivo. Gradevole, ma privo di mordente. Scorrevole, ma tanto leggero da risultare effimero.
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