Quello che doveva essere l’ennesimo corteo “di protesta” si è trasformato, ancora una volta, in un teatro di violenza. A Torino, la manifestazione organizzata dopo lo sgombero del centro sociale Askatasuna è rapidamente degenerata in scontri durissimi, con un copione purtroppo già visto: volto coperto, corteo spaccato tra chi pacificamente scende in piazza e chi – l’area antagonista organizzata – sceglie deliberatamente lo scontro fisico con le forze dell’ordine.
In apertura, gruppi di facinorosi hanno tentato di forzare il cordone della polizia, lanciando bottiglie e altri oggetti. La risposta delle forze di sicurezza è arrivata con lacrimogeni e idranti, ma la situazione è degenerata in cariche e corpo a corpo. Il primo bilancio parla di almeno 11 agenti feriti. Non solo: cassonetti rovesciati e incendiati per creare barricate, fuochi d’artificio puntati contro i reparti mobili, perfino grossi sassi scagliati contro gli operatori impegnati a garantire ordine pubblico.

Eppure, anche davanti a episodi così gravi, la narrazione – e soprattutto certe reazioni politiche e sociali – sembrano indulgere in una sorta di giustificazione permanente. Si parla di “tensione”, di “disagio sociale”, di “proteste animate”, quando in realtà ci si trova davanti a gruppi organizzati che praticano sistematicamente la violenza politica. Frange che si muovono dentro un clima culturale dove, troppo spesso, l’estremismo di sinistra viene relativizzato, minimizzato o addirittura romanticizzato.
Il dato più inquietante è che il corteo era partito in modo pacifico, con oltre duemila persone, tra cui famiglie e bambini. È questa, forse, la fotografia più amara: una minoranza violenta che usa movimenti e manifestazioni come scudi umani, sfruttando la presenza di cittadini comuni per poi trasformare la piazza in campo di battaglia. Delegazioni arrivate da altre città, bandiere politiche, parole d’ordine radicali: il terreno per lo scontro era già stato preparato.
Questo ennesimo episodio impone una riflessione: fino a quando il Paese continuerà a considerare “quasi normale” la violenza proveniente da certe aree dell’estrema sinistra? Fino a quando si continuerà a tollerare l’idea che esista una violenza “più comprensibile”, “più giustificabile”, rispetto ad altre? Torino dimostra che questa indulgenza culturale ha un prezzo concreto: feriti in divisa, città danneggiate, cittadini ostaggio di minoranze organizzate e aggressive.
L’ordine pubblico non è un’opinione. E la democrazia non può piegarsi alla logica di chi crede che basti una bandiera ideologica per legittimare violenza e intimidazione.













