«Ciao, piccola…»

Domenica scorsa al Franco Ossola c’è stato Fuck the Cancer, in ricordo di Erika Gibellini. Il padre della ragazza scomparsa per un tumore nel febbraio 2016 ieri è venuto a trovarci in redazione

L’odore secco dei fumogeni accesi dai ragazzi della curva strozza la gola e bagna gli occhi, offrendo la bugia più semplice per chi sta piangendo ma non vuole ammetterlo. Ormai è sera, l’ombra del Sacro Monte si è spinta giù fin sulle tribune del Franco Ossola appiattendo i colori e mescolando le emozioni, dopo una giornata così. Una giornata in cui il ricordo di Erika ha cancellato tutto, in cui una città intera ha gridato il suo “fanculo al cancro”: insieme a chi Erika non se la dimenticherà mai. La sorellina Sofia, la mamma Angela. E papà Massimiliano – ma lo conoscono tutti come “papà Gibe” – che ieri è venuto in redazione.

Mi fermo a quello che ho visto, perché non so nulla delle cifre. Non so quanto è stato raccolto e non voglio saperlo fino a stasera quando i ragazzi che hanno organizzato tutto lo sveleranno. E fermandomi a quello che ho visto, dico che ho visto una cosa bellissima.

Tanta, tantissima gente: ancora più dello scorso anno. Ho visto tanti volontari dare una mano, ed è davvero impossibile da fuori capire quanto lavoro ci sia dietro questo evento. E allora, fatemi dire grazie.

A loro, ai ragazzi della curva, a quelli che per sei mesi si sono sbattuti per questa cosa. Marco, Gianluca, Marino, Stefano, Marcello, Eleonora, Serena.

Ovviamente, ancora quella di Pavoletti. Quella dell’anno scorso l’ho regalata a una persona ma non posso dire chi è. Quella di quest’anno l’ho data ad Alice, la migliore amica di Erika. Ma ne ho prese altre, e ho voluto anche la maglia del Como.

I tifosi del Como, quando Erika è morta, hanno fatto uno striscione per salutarla e l’hanno esposto in curva. Io non ci volevo credere, con la rivalità feroce che c’è tra noi e loro: eppure l’hanno fatto. E domenica scorsa, quattro di loro sono venuti allo stadio: quattro ultras storici, dei vecchi tempi, che chissà quante legnate si sono dati con i nostri. Eppure eravamo lì, tutti insieme. Un altro miracolo di Erika, insomma. Quello striscione, ora, ce l’ho io.

In camera di Erika, dove non entra e non entrerà mai nessuno. Lì c’è tutto, ci sono tutte le sue cose e le cose che parlano di lei: i giornali, i vestiti, le foto. Non butto via nulla perché quelli sono i suoi ricordi, e noi ormai siamo in vita grazie a quelli.

Quando mi fanno questa domanda, non rispondo. Perché se rispondessi “bene”, direi una bugia. Se rispondessi “male” direi la verità ma direi anche qualcosa che in fondo non interessa a chi mi sta davanti. È sempre dura, certo. Ieri, facendo dei lavori in casa, sono saltate fuori delle vecchie foto, che non ricordavo nemmeno più di avere. Foto di Erika, di quando era piccolina. Ed è difficile. Per me, per mia moglie Angela, per Sofia che quando Erika si è ammalata aveva cinque anni e adesso sta crescendo con i racconti della sua sorellona che non c’è più. A volte mi sorprendo a pensare che sarebbe stato meglio se a portarsi via Erika fosse stato un incidente.

Perdere una figlia, perderla a quindici anni, è devastante: sempre. Ma vederla morire lentamente, giorno dopo giorno, è qualcosa di inumano. Non siamo stati programmati per sopportare un dolore del genere.

Abbiamo scoperto che Erika aveva un cancro quando lei aveva dodici anni: così, da una semplice ecografia dopo che lei da qualche settimana non stava bene e non riuscivamo a capire perché. È iniziato tutto così, e di quei tre anni ricordo ogni giorno, ogni cosa, ogni momento, ogni speranza e ogni mazzata che arrivava puntualmente. Perché questa è una malattia così: ti illude, ti fa stare bene, sembra giochi con te. E poi ti uccide.

I cicli di chemio e le radioterapie funzionavano. Hanno fermato la bestia, per un po’. Nel 2014 abbiamo fatto un controllo e ci hanno detto che le cose si erano messe bene, perché il tumore sembrava essersi fermato. Poi, controlli ogni tre mesi. Finché…

Eravamo a Milano per uno dei normali controlli, e mentre eravamo in centro ci hanno chiamato dall’ospedale: “Venite qui, subito”. Ho capito che c’era qualcosa che non andava. Infatti, la bestia era tornata: e quando torna, torna più cattiva di prima. Ce l’hanno detto così: ed Erika ha reagito con una sola lacrima. Una sola. L’unica che le ho visto versare in quei tre anni. Perché è sempre stata lei a dare la forza a noi, mai il contrario.

Ve ne regalo due, e sono due viaggi che ho fatto con lei e la sua amica Alice. Il primo è stato un Varese-Bressanone ripetuto tre volte in quattro giorni. L’oratorio era su in montagna ed Erika ci teneva ad esserci, ma aveva un controllo in ospedale. Per tre volte siamo scesi e per tre volte ci hanno detto “tornate dopodomani” perché gli esami non potevano essere fatti. E ogni volta tornavamo su a Bressanone.Ma io, con lei e per lei, avrei fatto avanti e indietro mille volte.

Il viaggio a Londra, poche settimane prima di andarsene. Era il suo sogno, e gliel’ho regalato. Non so come abbiamo fatto a organizzare tutto, ma sono stati tre giorni meravigliosi, in cui Erika ha visto tutto quello che c’era da vedere. Porto con me ogni momento, ogni attimo. Erika è stata felice, prima di salutarci.

Sempre, tutti i giorni. E sapete una cosa? Siamo riusciti a far cambiare gli orari di chiusura, quindi non devo più fare le corse dal lavoro. A proposito: un saluto allo stronzo che ieri ha rubato i braccialetti e l’angioletto dalla tomba di Erika. Stai leggendo? Vergognati.

Quattro candele accese ogni sera: tre in balcone, una in camera sua. Il suo cagnolino Aron. La sua sorellina Sofia, che crescerà sapendo di avere avuto una sorella fortissima. Le parole di chi ha conosciuto la sua storia e mi ferma per strada ringraziandomi perché hanno iniziato ad amare i loro figli in un modo diverso. E poi, è mancanza. Erika mi manca, e oggi Erika è questo. Una cosa che dovrebbe esserci, ma non c’è.