Distrutti i vetrini col Dna. «Se sei stato tu confessa»

In quella prova tracce di chi la violentò. Ma non esiste più dal 2000. La madre di Lidia: «Risparmiaci il dolore di una riesumazione»

VARESE – Omicidio di : dopo 29 anni c’è un sospettato ma manca la prova regina. Distrutta per ordine del primo gip che seguì la vicenda con ordinanza datata 31 ottobre 2000.
Se fosse stato arrestato 16 anni fa la scienza sarebbe stata in grado di stabilire al di là di ogni ragionevole dubbio la sua colpevolezza oppure la sua innocenza.
Oggi, quella prova, che pure nel 1987 era stata raccolta non esiste più: distrutta per ordine di un magistrato.
E in campo, i familiari di Lidia Macchi, sono stati costretti a mettere un’istanza di riesumazione del corpo della giovane scout violentata e uccisa il 7 gennaio 1987 e ritrovata cadavere nei boschi del Sass Pinì il 7 gennaio dello stesso anno.

Poche righe per inquadrare uno scenario che avrebbe potuto essere diverso e infinitamente più decisivo.
E che spiegano l’appello di , la madre di Lidia, che attraverso il legale si rivolge direttamente a Stefano Binda, 49 anni, ex compagno di liceo e amico di Lidia, arrestato l’altroieri con l’accusa di aver assassinato la ventenne. «Risparmiaci il dolore di una riesumazione. Per favore, risparmiaci questa prova di straordinaria durezza. Se sei stato tu, confessa. Se sei stato tu parla».
Paola Macchi è una donna che si misura in pacatezza e dignità.«Non c’è livore alcuno nei confronti di Binda – spiega Pizzi – Nessun giustizialismo. Accetteremo la sentenza al termine di un processo. C’è piena fiducia nell’operato della magistratura».

Ma c’è il rammarico, comprensibile, nei confronti di quella prova regina, la pistola fumante che qualsiasi inquirente spera di scovare nel corso di un’inchiesta, che sino a 16 anni fa giaceva nell’ufficio corpi di reato del tribunale di Varese: due vetrini contenenti il Dna di chi quella sera violentò la giovane Lidia e poi la uccise.
Una prova schiacciante rimasta lì per 13 anni e distrutta per fare spazio ad altri reparti.

Il gip lo dice chiaramente nell’ordinanza di 29 pagine che ha portato in carcere Binda: l’aggressore lasciò un’abbondante quantità di sperma dopo l’abuso. «Sperma che fu raccolto con una bacchetta di vetro – scrive il gip sulla base dei referti autoptici del 1987 – e posizionato su due vetrini». Oggi, dopo 29 anni, c’è un arresto per l’omicidio di Lidia Macchi, con quei due vetrini a disposizione sapremmo finalmente la verità. «Quella decisione – dice oggi l’avvocato Daniele Pizzi – è da noi sempre stata definita disastrosa, abnorme».

E, prosegue l’avvocato della famiglia Macchi: «Il fascicolo non è mai stato chiuso. Le indagini formalmente era ancora aperte. Come è stato possibile decidere di distruggere la chiave per risolvere un crimine tanto efferato?». Pizzi riflette, tra l’altro, che «in 29 anni la tecnologia di indagine scientifica ha fatto passi da giganti. Se all’epoca quel Dna poteva essere insufficiente ad avere la marcatura genetica certa dell’assassino, oggi sarebbe bastato uno spermatozoo». Spermatozoi che, i referti autoptici, ci dicono essere stati numerosi su quei due vetrini. «La distruzione di quella prova danneggia anche l’arrestato stesso. Lo priva della possibilità di scagionarsi immediatamente, se innocente», aggiunge Pizzi.

Resta la possibilità della riesumazione del corpo di Lidia: «Una decisione costretta, che potrebbe non dare esiti certi – aggiunge l’avvocato della famiglia Macchi – È possibile che prima della conclusione delle indagini questa riesumazione venga eseguita».

E allora Paola Macchi chiede: «Se sei stato tu, confessa. Risparmiaci questo dolore».