Su Facebook gli insulti spengono la civiltà

L’editoriale della nostra nerista Simona Carnaghi

Gianni Morandi è un grande della musica italiana. Fosse nato altrove lo chiameremmo rockstar, da noi è Il Gianni nazionale.
Morandi tre giorni fa ha commesso un errore fatale: ha aperto il suo seguitissimo profilo Facebook e ha postato un pensiero da uomo normale in relazione ai migranti. Ha proposto alla piazza virtuale il suo umanissimo pensiero. E lo ha fatto con educazione. Risultato: è stato sepolto da una valanga di insulti. In tutto 14mila commenti: “Taci tu che dici minchiate”, “Fai la predica dalla tua villa da ricco”, “Sono tutti ladri assassini e stupratori”, “Rovesciamo i barconi”. S’è scomodato persino Matteo Salvini: “Morandi così attento alle esigenze degli immigrati, dia il buon esempio: accolga e paghi di tasca sua”, ha scritto il segretario della Lega Nord. Salvini, duole dirlo, tra i tanti è il solo che si può comprendere: quel commento glielo impongono il suo ruolo e il suo elettorato. Ma gli altri?

E ancora Morandi cerca di frenare la valanga d’odio rispondendo uno per uno a quei commenti grondanti livore. E lo fa ancora una volta da uomo normale: risponde con educazione. Scrive su “La Stampa” di ieri Michele Brambilla, che fu il nostro primo direttore e ci volle a Varese: «Tenero Morandi, cresciuto ai tempi del Galateo. La sua gentilezza non placa il rutto libero della rete».
Il passo falso del Gianni nazionale è stato proprio questo: essere un uomo normale in un luogo che normale non è. La piazza virtuale dei social è un posto che non esiste. Dove chiunque si sente legittimato a dire tutto ciò che vuole usando i toni più violenti possibili. Perché? Perché è frustrato di suo. Perché è un fallito. Perché è anonimo e può fingere di essere ciò che non è, arrivando lui stesso a credere alla menzogna che si è costruito: quella di non essere un mediocre.

I social network erano un’opportunità. Li abbiamo trasformati in un non luogo dove i fatti veri non contano, chi la grida più grossa passa per opinionista e così, tanto per sintetizzare il tutto con un detto dialettale coniato ai tempi in cui il Pc(i) era al massimo un partito politico, chi grida di più, la vacca l’è sua.
I social network avrebbero potuto migliorare il mondo: informazioni costanti, comunicazione, libertà nel confronto. Un flusso continuo di idee.

Ed è qui che ci siamo incagliati: la qualità del pensiero. O la mancanza dello stesso.
Non è colpa dei social, è colpa nostra. Abbiamo visto uno spazio vuoto e l’abbiamo riempito di sterco. Avremmo potuto metterci poesia e cultura ma, a quanto pare, non ne siamo capaci. Del resto essere un cyber bullo è alla portata di tutti. Essere un artista no. E in un non posto così la semplice educazione, quella di Morandi, irrompe come un raggio di sole in una cella buia. È bella, ti viene voglia di difenderla, di accudirla nella speranza che cresca e si diffonda. Nella speranza che vi sia persino una maggioranza oggi silenziosa che sui social non si esprime temendo l’aggressione, e che da quell’educazione tragga coraggio e ispirazione parandosi con vigore davanti ai tanti “taci tu che dici minchiate” con un normale “mi spiace, non sono d’accordo”. Che disarmi i rovesciatori virtuali di barconi domandando loro: “Di cosa hai davvero paura?”. Ma certo non vedremo mai quest’alba radiosa.
Ha ragione Michele Brambilla che torna ai tempi del Manzoni e scrive: «Il buon senso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune».
Infine una piccola postilla: queste cose oggi le scriviamo sulla carta. Che di un giornale, per noi, è il paritetico di farina e uova per un pasticcere romantico: senza non sarebbe una torta.