Quel giorno ad Auschwitz quando è morto un pezzo di me

Di quel giorno ad Auschwitz ricordo il freddo, che la voglia di assorbire tutto e vedere ogni cosa non riusciva a mitigare. Un freddo insistente trasportato dal vento e coerente con l’idea che mi ero fatto di quel luogo, talmente intriso di morte dal rendere impossibile il pensiero che lì potesse far caldo. Ricordo il rumore dei passi sul selciato, unica colonna sonora di quella giornata in cui andai a stringere la mano al dolore: tutt’attorno, un silenzio pesante e liquido. Auschwitz è un luogo in cui l’infamia si è cristallizzata, un luogo in cui il tempo si è fermato e dove i colori non esistono.

Ognuno ha un momento, durante la visita, che ricorderà per sempre con una miscela devastante di dolore, stomaco bloccato e brividi. Restare fermi davanti al forno crematorio, dove i corpi e le anime diventavano cenere e fumo. Guardare quella vasca enorme piena di capelli, capaci di personalizzare la morte e di darle voce. I giochi dei bambini: migliaia di bambole, macchine di latta, trenini di legno che risuonavano delle risate di chi li usava, un attimo prima di essere portato nella camera a gas. Il marciapiede di fianco ai binari di Birkenau, dove le SS selezionavano gli ultimi arrivati: tu muori stasera, tu forse sopravvivi almeno fino a domani.

E quella maledetta vetrina con le protesi dei prigionieri: gambe, braccia, busti, tutori. Lo ricordo bene quel momento in cui sono dovuto scappare fuori per prendere aria. Ad Auschwitz si muore, un po’, anche oggi. Ad Auschwitz si morirà, un po’, per sempre.