Se la deriva da social porta alla morte di una ragazza

Ci vuole un genio per capire che un video con faccia, nome e cognome di una ragazza che compie atti sessuali espliciti costituisce una palese violazione della privacy? Ci vuole un avvocato per capire che la violazione della privacy è penalmente rilevante oltre che moralmente riprovevole? Ci vuole un cadavere per capire che condividere un video oggetto di una violazione della privacy (tecnicamente, quindi, un corpo del reato) significa partecipare attivamente alla violazione stessa, innescando un processo di diffamazione devastante? Evidentemente sì,

perché a quanto pare l’utente medio non ci arriva. Ne è la triste riprova l’epilogo della vicenda di Tiziana Cantone, la ragazza di Mugnano che si è suicidata dopo che un suo video hard aveva ottenuto milioni di click e condivisioni diventando virale: un dramma che si sarebbe potuto evitare con un’elementare consapevolezza delle potenzialità diffamatorie del web, una minima conoscenza delle leggi in materia di privacy e un granello di umanità nel considerare che dietro ogni identità online astratta c’è una persona concreta. Così come allora non si poteva pensare che diffondere un video del genere fosse un’azione senza conseguenze, adesso che Tiziana non c’è più non si può sperare di cavarsela con il “siamo tutti colpevoli”, un’autoaccusa collettiva che di fatto assolve ciascuno dalle proprie inderogabili responsabilità individuali: chi negli scorsi mesi ha cavalcato via social l’orrido tormentone del “bravoh” sappia di aver preso attivamente parte a una deriva che ha portato una ragazza al suicidio. Gli altri hanno semplicemente compiuto il loro dovere di persone perbene: resistere all’umana idiozia.