Mister Ignis siamo noi La fiction è una delusione

Ben vengano omaggi e promozione. Ma speriamo che, prima o poi, arrivi anche la qualità. Quella artistica. Quella che solo bravi registi, bravi sceneggiatori e bravi attori, possono garantire.

Purtroppo, dopo il risultato deludente del cinematografico Pretore, anche il televisivo Mister Ignis lascia l’amaro in bocca. La fiction trasmessa da Rai Uno è debole nella regia, puerile nella scrittura, carente nelle interpretazioni. A cominciare da un Lorenzo Flaherty più adatto a pubblicizzare un dopobarba che a interpretare un mecenate con una Anna Valle bella almeno quanto fuori parte. Certo, Massimo D’Apporto fa di tutto per dare peso al proprio ruolo, ma la sceneggiatura non è di aiuto. La scelta, deleteria, di spargere qua e là, a casaccio, frasi in dialetto, si rivela un autogol. Dialetto e inflessioni sono terreni minati. Se non hai a disposizione attori autoctoni, o un Vittorio Gassman con tanto di perfetta padronanza degli accenti, meglio lasciar perdere.

Perché se è vero che il linguaggio è l’anticamera della credibilità, è altrettanto vero che il dialetto (Ermanno Olmi docet) è il piano attico della espressività artistica, il pass-par-tout della cultura popolare. Ma va maneggiato con cura: se lo utilizzi male, diventa un boomerang e trasforma il carattere in macchietta, il personaggio in caricatura, l’opera di finzione in recita da oratorio. Ed è proprio ciò che capita a Mister Ignis (specialmente nella prima parte).

L’aggravante è una regia schematica, piatta, priva di guizzi. Talmente stanca da rendere dozzinali e prevedibili tecniche risapute e solitamente efficaci come il montaggio alternato e le scene corali. E così didattica da prediligere una linearità stilistica quasi totalizzante, condita con una manciata di asettici panorami e scenografie cartonate: senz’anima, senza significato, senza empatia.

Come se il ripetitivo stakanovismo dell’industria meccanica sublimasse in una regia altrettanto impostata e rituale: incapace di cogliere ciò che il libro di Gianni Spartà, al contrario, trasmette chiaramente: il senso della sfida, la spregiudicata lungimiranza, l’idea di futuro che il Cumenda, archetipo del carisma lumbard, aveva ben impressa.

C’è una specie di “paraurti emotivo” nel Borghi raccontato da Spartà e cui la fiction rinuncia completamente, rifugiandosi in codici espressivi premasticati, che finiscono per banalizzare e stereotipare anche momenti storicamente cruciali, come il confronto con i sindacati.

Insomma, la storia di Mister Ignis e la sua biografia avrebbero meritato più coraggio e mani più solide. Con degli autori più abili e dei protagonisti meno ingessati l’epopea di Borghi sarebbe diventata archetipo di un’Italia che non c’è più e che il nostro territorio ha saputo incarnare. Invece, no. Dopo la montagna promozionale che ha partorito il topolino del Pretore, ci troviamo di fronte una seconda delusione.

Ancor più cocente, forse, per l’alone leggendario che circonda il Cumenda e che, ai milioni di telespettatori del resto d’Italia, rimarrà ignoto. Resta un auspicio: che la prossima volta qualcuno chieda una mano in più ai veri talenti locali. Così che, al “saper fare” tipico delle nostre zone, si aggiunga presto un saper filmare.

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