La diplomazia è uscita dalla storia

Con la fine della Guerra fredda e del bipolarismo, ha lasciato il posto a una serie di conflitti. La globalizzazione ha trasformato il mondo in un «vicinato». I muri intanto si sono moltiplicati

Molte cerimonie lo scorso mese di novembre, nella capitale tedesca e altrove, hanno commemorato l’anniversario della caduta del Muro di Berlino, avvenuta 25 anni prima. I «vincitori» hanno celebrato soprattutto se stessi. Fra i grandi e ex-grandi della Terra che sono convenuti a Berlino, forse il solo Gorbaciov, nello stesso tempo vincitore e vinto, ha avuto parole di autocritica.
Nel contesto della competizione Est-Ovest i confini erano rigidi e formalizzati. Si può capire perché la demolizione di una costruzione assurta a simbolo odioso di divisione,

un impedimento per la libertà, colpì subito tutti come un evento fatale. Alle scene di esultanza dei berlinesi di qua e di là non corrispose nessuna reazione da parte dei dirigenti della Germania orientale. Era questa la prova più sicura della svolta. La Germania e l’Europa trovarono una sistemazione con una facilità che poté sorprendere. Gli equivoci, fra il detto e il non detto, si riveleranno più tardi, nel corso degli ultimi anni e con più evidenza proprio in questo stesso 2014 – che ha ricordato anche il centenario della Prima guerra mondiale – con l’inasprimento della crisi in Ucraina e la messa in stato d’accusa di Putin.
La Nato è sopravvissuta alla fine della guerra fredda ma è condizionata dall’intreccio di relazioni che nel frattempo si sono stabilite soprattutto fra Europa e Russia. Il crollo del Muro rappresentava solo la riunificazione di una città, nemmeno di una nazione. Il suo verdetto però era drastico. Sanzionava l’affermazione, senza una guerra guerreggiata, di un blocco sull’altro. L’Occidente non manca mai di ricordare a Mosca chi ha vinto e chi ha perso. Gli Stati Uniti furono pronti non solo a rivendicare quel successo ma a riformulare le coordinate del sistema che aveva preso il posto del bipolarismo. Il Nuovo ordine mondiale tratteggiato dal presidente George Bush quando la guerra fredda sembrò definitivamente conclusa prospettava un mondo «piatto» che ad alcuni suggerì la «fine della storia» ma che intanto doveva stare alle regole stabilite da Stati Uniti e alleati. Euforico per il trionfo, Bush, sottovalutando il carico di rancori originati dalla politica del colonialismo europeo e degli Stati Uniti. confidava che anche i leaders del Terzo mondo più ostili in passato verso l’Occidente si sarebbero piegati a un responso senza appello.
Il «nemico» era cambiato. Gli Stati Uniti spostarono gli apparati della difesa e della retorica da Est a Sud. Gli Usa, diceva Bush, devono fare i conti con la minaccia rappresentata «dalla turbolenza e dai pericoli del mondo in via di sviluppo» e devono essere pronti a «trattare con un mondo che, per le nostre speranze, resta un mondo pericoloso: un mondo di antagonismi etnici, rivalità nazionali, tensioni religiose, diffusione degli armamenti, ambizioni personali e persistente autoritarismo».
Ben presto i Paesi e i popoli della periferia avrebbero occupato il centro della scena con i loro tormentati processi di emancipazione e di crescita. Nelle stesse fonti ufficiali americane si riconosce che alla base dell’instabilità urgono problemi complessi di costituzione di Stati o nazioni nonché il divario fra popoli ricchi e popoli poveri. Ma appena persero di attualità i dosaggi sottili d’obbligo durante la guerra fredda per non scatenare l’Armageddon nucleare, la diplomazia è uscita dalla storia sostituita sempre più spesso dalla guerra. La prima grande crisi del post-bipolarismo, mentre si stavano consumando gli ultimi giorni della storia dell’Urss, scoppiò nel Medio Oriente per «liberare» il Kuwait invaso dall’Iraq.
Per definizione, la globalizzazione che accompagnava il Nuovo ordine mondiale trasforma il mondo in un «vicinato». I capitali, la tecnologia, le merci godono di un’ampia libertà di circolazione. Le dogane smobilitano ma resistono o emergono altre barriere. Forti restano in particolare le opposizioni alle ondate disordinate di migranti e profughi che lasciano i Paesi in via di sviluppo in preda a guerre o calamità. Chi si ricorda più che la «fuga» dei tedeschi dell’Est attraverso il Muro sfidando i «vopos» –anche a costo della vita come i disperati che si avventurano nel Mediterraneo sui barconi – era salutata come una vittoria di tutti?
La linea di divisione neanche tanto immaginaria nel Mediterraneo e altrove non è più in senso stretto una frontiera di sovranità ma è ancora una frontiera di potere. La vasta terra – di nessuno o di tutti – fra Nord e Sud e fra Ovest e Est è un campo di belligeranza perenne con tanti fronti aperti o potenziali. I diritti da universali diventarono discrezionali. I deboli aspirano al riscatto e i più forti si sentono insicuri. I fronti opposti, non importa se vicini o lontani, non si «riconoscono» più fra di loro.
È così che le Berlino e i muri si sono moltiplicati ovunque dall’Eurasia al Messico. I Balcani e il Medio Oriente fanno spicco con le loro ferite ancora aperte. Il Sahara, solcato per secoli dai nomadi con i loro traffici, è diventato un vero e proprio limes fra due mondi, irto di ostacoli artificiali in aggiunta a quelli naturali. Dopo che si sono rialzati i venti della guerra fredda, anche fra Ovest e Est si parla di muri e le frontiere si riscaldano come se la «cortina di ferro» non avesse mai cessato di esistere. Putin, sia pure addossando agli occidentali la responsabilità di aver riaperto un fronte conflittuale nell’«estero vicino» della Russia, ha evocato una linea divisoria fra l’Europa dell’Unione europea e l’universo «orientale» della stessa Europa fatto coincidere con la civilizzazione russo-ortodossa.
Eppure, a dispetto dell’ideologia del conflitto, gli accomodamenti reciproci, le migrazioni e gli attraversamenti – in cui eccelle la vicenda storica del Mediterraneo – sono i veri caratteri della modernità e del postcolonialismo.