Il diritto di non crederci e di non andare a Modena

Il commento prepartita del direttore Andrea Confalonieri

Abbiamo il sacrosanto diritto di non crederci più. Abbiamo tutte le ragioni del mondo, dopo dieci anni e mezzo da sogno vissuti sui campetti di San Donato Milanese e San Bonifacio, o sui camponi come l’Olimpico e Marassi, di non partecipare domani, per la prima volta deliberatamente e con coscienza, alla trasferta del Varese a Modena, rimanendo fieramente a casa. Abbiamo il diritto di ribellarci a una squadra che non è più la nostra squadra, nascosta sotto mentite spoglie. E di essere disgustati da chi rappresenta una società che non è più la nostra società.

Abbiamo il dovere di raccontare ciò che proviamo e cioè il senso di vergogna profonda ad ogni uscita di un presidente che, nel nostro cuore e nella nostra anima (cos’è, una bandiera, se non orgoglio e anima?), non è e non sarà mai il nostro presidente.
Abbiamo l’obbligo morale di allontanarci dal campo se una cosa seria come il Varese viene ridotta a barzelletta su tutte le tv, le radio e i giornali d’Italia.

Abbiamo l’onore di poter dire: quel presidente che ride, canta e suona nel nome del Varese, mentre lo stesso Varese scompare ingloriosamente dalla mappa del calcio, non può farlo anche per conto nostro e di tanti come noi che soffrono come bestie da mesi, e a cui sembra di perdere un attimo di vita a ogni centimetro di serie B che se ne va. Ma cosa c’è da ridere, Cassarà? Ma lo sai come ci sentiamo in questo momento? Ma cosa sono tutte queste parole al vento mentre noi stiamo morendo in silenzio?

È per questo che non ci crediamo più, è per questo che non saremo a Modena a farci rappresentare da chi non può e non deve farlo, è per questo che lasciamo andare domani a bordo campo e in tribuna la parodia del Varese che da giorni è approdata a Ciao Belli su Radio Deejay, allo Zoo di 105, a Striscia o alla Zanzara di Radio 24. È per questo che ci dissociamo da chi porta in giro il nostro nome con gli occhi gonfi di risate, e non di pietà. È per questo che non ci facciamo dare lezioni di amore per il Varese da nessuno, standocene finalmente a casa in santa pace.
È per questo che preferiamo passare una domenica portando un fiore sulla tomba di Peo Maroso, e chiedendogli scusa per conto di chi dovrebbe farlo al posto nostro, piuttosto che andare a farci prendere per il sedere anche allo stadio Braglia. È per questo che usciamo da una trincea trasformatasi ormai in tragicomica vignetta. È per questo che è meglio l’eutanasia dai campi frequentati dall’agosto 2014 piuttosto di chi continua a calcarli senza dignità, senza vergogna, senza pudore. È per questo che aspettiamo di raccontare un’altra storia, rappresentata da persone serie, da parole e atteggiamenti onorevoli, piuttosto che prendervi anche noi per i fondelli, facendo finta di credere in ciò a cui non crediamo più da un pezzo.

Non può chiamarsi Varese una società in mano a un proprietario scomparso chissà dove. Non può chiamarsi Varese una squadra devastata e fatta retrocedere dai suoi stessi (ex) dirigenti al mercato di gennaio. Non può chiamarsi Varese quella cosa di cui si ride ovunque a crepapelle, mentre noi poveri cristi siamo qui a piangere e incazzarci per aver perso qualcosa che non tornerà più. Non può chiamarsi Varese un posto dove si getta la croce della retrocessione addosso a Daniele Corti invece che ai veri colpevoli, scappati all’estero o dal sen sfuggiti.