Parole, perle e diamanti. La magia di Alda Merini

La poetessa nel luglio del 2005 visitò il Sacro Monte e ricevette la cittadinanza onoraria varesina

Faceva freddo al Sacro Monte quella sera di luglio, quando la poetessa milanese (1931-2009) recitava i versi del suo “Magnificat”, in occasione della celebrazione dei quattrocento anni dalla costruzione del Sacro Monte di Varese.

Era il 2005 e i registi Flavio Battistini e Antonio Zanoletti avevano organizzato un evento teatrale itinerante, per la Fondazione Paolo VI, curando la scena nell’allestimento, i costumi, dentro la già suggestiva scenografia dell’ultimo tratto della salita sacra. Fumava una sigaretta dopo l’altra, Alda Merini, e si arrabbiava per il freddo, scegliendo parole assai vivaci per lamentarsene, con l’amico poeta varesino Dino Azzalin, che le sorrideva, paziente.

La mattina del giorno dopo li ritrovavamo, insieme al fotografo Paolo Zanzi, uno tra i promotori dell’iniziativa, nel Salone Estense, dove la poetessa milanese – una t-shirt nera dalla fantasia sgargiante e diverse collane colorate – riceveva la cittadinanza onoraria varesina, dall’allora sindaco del Comune di Varese Aldo Fumagalli, coordinatore del progetto “Sacro Monte di Varese, eccellenza ed identità di un territorio: Quattrocentesimo Anno” insieme alla Regione Lombardia, la Provincia di Varese e la Fondazione Paolo VI per il Sacro Monte di Varese.

Questa la motivazione: «per aver promosso nelle sue opere il realismo, vitalità genuina e immediata, l’eccellenza della forma e il patrimonio artistico e spirituale che si riconoscono nel Sacro Monte di Varese».

«L’avevo conosciuta a Milano, alla fine degli anni 80 – racconta Azzalin – era ancora segnata dall’esperienza dolorosa del manicomio, di cui portava ancora le ferite e sin da subito, complice il fatto che eravamo entrambi autori dell’editore Crocetti, diventammo amici e spesso ci capitava di leggere i nostri versi a Milano».

La sua casa sui Navigli era parte di un mondo particolare: «Sono stato diverse volte a casa sua, dove regnava un grande disordine, mi ricordo queste pile enormi di piatti. La sua casa, per certi versi, assomigliava a lei: assolutamente imprevedibile, volubile, ma, al tempo stesso, dotata di una capacità unica di cogliere, da una specie di sorgente misteriosa, le parole, di assemblarle in maniera magica, come fossero perle e diamanti, stupendi».

Negli ultimi tempi le poesie venivano dettate, spesso al telefono, come racconta lei stessa all’inizio dell’opera “Nel cerchio di un pensiero” (Crocetti editore): «Queste poesie nascono da lunghe telefonate e incontri con Marco Campedelli. Le ho dettate e il mio interlocutore le ha trascritte in diverse ore del giorno e della notte. Sono frutto di un “innamoramento poetico”. I poeti sono eternamente innamorati di qualcosa, di qualcuno, di una presenza, di un sogno».

«Alda da tempo non scrive più le sue poesie ma, come gli antichi rapsodi, le detta – scrive Gianfranco Ravasi nella Prefazione all’opera “Francesco Canto di una creatura” – lasciando che il vento e gli ascoltatori le raccolgano e le cristallizzino sulla pagina».

Sogno e follia, dolore e gioia condensati in versi, nelle parole che, per Alda Merini, sono state “vocazione salvifica”, in cui, come rivela Giorgio Manganelli nel settembre 1983 «la forza ilare e minatoria delle parole, delle frasi, del «loro destino di fiori» ininterrottamente propone un disegno di gioia, una nitidezza amorosa che non solo non paventa, ma sembra scegliere lo spazio infernale come luogo fatale della propria nascita e letizia». «Ora che lei oggi non c’è più – conclude Azzalin – mi ricordo il suo funerale nel Duomo colmo di persone semplici, gente comune, le sue poesie fanno ancora rumore, più di una dorata cupola di stelle e sono, come scrisse Giovanni Raboni nella Prefazione a “Testamento”, il miglior florilegio della poesia italiana».