Caso Macchi, spunta un nuovo Dna

La squadra dell’Istituto di medicina legale di Milano riprodurrà i tessuti in laboratorio per le analisi

Tessuti riprodotti in laboratorio e inseminati per verificare se gli spermatozoi lasciati sul corpo di Lidia Macchi siano ancora “vivi” e possano custodire ancora il Dna del suo assassino a distanza di 30 anni. E dopo essere stati conservati in formaldeide per tutto questo tempo. È quanto tenteranno di fare l’antropologa forense Cristina Cattaneo ed il suo staff. Inoltre si intende identificare anche il Dna mitocondriale della famiglia di Lidia “al fine di evitare un pericoloso effetto Bossetti”, spiega l’avvocato Daniele Pizzi, legale della famiglia Macchi. Non solo: la procura generale di Milano, che coordina le indagini, ha chiesto e ottenuto una proroga di 30 giorni per cercare l’arma del delitto.

Al Sass Pinì, località boschiva di Cittiglio dove il cadavere della giovane studentessa varesina di 20 anni, scout e militante di Comunione e Liberazione, fu trovato nella mattinata del 7 gennaio 1987. Lidia fu uccisa nella notte tra il 5 e il 6 gennaio di quell’anno con 29 coltellate: era andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio dopo un incidente d’auto e non fece più ritorno a casa. Il 15 gennaio 2016 fu arrestato Stefano Binda, 49 anni, di Brebbia, ex compagno di liceo di Lidia, accusato di aver stuprato e ucciso la ventenne della quale era innamorato. Questa la tesi accusatoria: il 12 aprile Binda compatirà davanti alla Corte d’Assise di Varese. Nel frattempo gli inquirenti torneranno a scavare al Sass Pinì alla ricerca dello stiletto utilizzato per uccidere Lidia e dei suoi occhiali.

Le stesse ricerche sono state eseguite nel parco Mantegazza, a Masnago, dove Binda, secondo Patria Bianchi, la teste che tre anni fa, guardando Quarto Grado, riconobbe come appartenente a Binda la grafia della lettera in morte di un’amica, recapitata a casa Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia e per gli inquirenti scritta dall’assassino o da qualcuno informato sui fatti, buttò un sacchetto di carta pochi giorni dopo l’omicidio. Ad oggi nulla di compatibile con l’arma che uccise Lidia è mai stata ritrovata. La ricostruzione di tessuti, invece, riguarda l’imene della ragazza che si è salvato dalla distruzione dei reperti relativi all’omicidio ordinata dall’allora responsabile dell’ufficio gip del tribunale di Varese nel 2000.

Secondo la relazione del medico legale che nel 1987 eseguì l’autopsia sul cadavere della ragazza era presente liquido seminale. La ricostruzione dei tessuti, con l’inseminazione, servirà agli antropologi a capire se è possibile tentare delle analisi sul tessuto originale. Una “prova” necessaria: gli esami, infatti, distruggeranno il campione originale. Prima di perdere quella prova preziosa i periti vogliono capire quante possibilità esistano di riuscire ad avere il Dna dell’assassino, o di chi ebbe un rapporto sessuale con Lidia poco prima che fosse uccisa.

Il Ris di Parma ha infine eseguito un prelievo del Dna della madre di Lidia. Lo scopo è quello di estrarre anche Dna mitocondriale da comparare con qualunque reperto non appartenente a Lidia che venisse trovato sulla salma riesumata lo scorso marzo. I periti stanno lavorando con estrema meticolosità. Ogni capello, ogni pelo trovato sulla salma è stato isolato e catalogato. Si cerca di isolare Dna non appartenente a Lidia. Il prelievo alla madre serve per escludere lei e i familiari. È infatti logico pensare che i familiari di Lidia l’abbiano toccata, magari una carezza, l’abbiano avvicinata per un ultimo saluto durante le esequie, come avviene sempre in questi casi. Un capello, il pelo di un braccio, potrebbero essere caduti sul corpo. Per evitare che “come accaduto nel caso Bossetti possano avvenire delle contaminazioni”, spiega Pizzi, è stato eseguito il nuovo prelievo di Dna in modo da evitare contaminazioni. E da poter isolare, qualora fossero individuati, soltanto i reperti estranei alla famiglia. Analizzandoli in modo “distaccato” e al di sopra di qualunque sospetto. Al momento la speranza di trovare il Dna dell’assassino è racchiusa nello sperma lasciato dall’assassino dopo lo stupro.