La Pasqua seduti al tavolo con la tradizione. Tra ricette, segreti e leggende culinarie

Un viaggio alla riscoperta dei pranzi sontuosi e originali con cui i nostri nonni festeggiavano la ricorrenza

Conservare e tramandare la memoria dei tempi che furono è fondamentale, e la nostra storia alimentare è un tassello prezioso per comprendere chi siamo, da dove veniamo e dove intendiamo andare.

La tavola di Pasqua, come quella di tutte le feste, racconta molto della nostra identità, ed è significativo come ci sia un filo conduttore fra la cucina delle varie castellanze ma anche qualche ricetta o usanza di campanile che è bello riscoprire da un racconto che giunge, a volte, del tutto inaspettato. Come nel caso della signora , classe 1929, nativa di Bobbiate, figlia del fornaio Ernesto, che aveva inaugurato nel 1929 un forno a vapore all’ingrosso a fianco dei locali del Circolo del paese.

«Bobbiate, quando ero bambina, era terra di contadini, e così rimase sin dopo la guerra. La carne arrivava in tavola solo la domenica, quando si faceva il bollito, ma giusto il pollame, e durante le feste comandate: a Pasqua invece tanti riuscivano a portare a casa il capretto. Però, visto che si viveva perlopiù di quello che c’era, anche a Pasqua non mancava la gallina bollita assieme alle sue uova, che mettevamo nell’insalata e ciapp,

fatta di cicoria dei campi, uova sode tagliate a metà – ossia le “ciapp” – e lardo sfrigolato per condire, con un po’ di aceto. La mia mamma era un’infermiera e nonostante lavorasse sapeva cucinare molto bene e preparava una splendida l’insalata russa con la maionese fatta da lei; fra gli antipasti, che forse erano la cosa più rappresentativa di tutto il pranzo pasquale, c’erano i salumi della bottega della parte vecchia del paese: ma non erano molti.

Mi ricorderò sempre che una volta mia zia, che era di Milano, arrivò a festeggiare e rimase sconcertata nel vedere solo salame, gorgonzola e bologna. Così la mamma da allora aveva preso ad andare al “Furmagiatt” di via Foscolo, dopo la guerra trasferito in via Magatti, che aveva salumi e formaggi di tutti i tipi. In centro c’erano anche le pasticcerie più rinomate: vicino al Credito Varesino il pasticcere Gandini sfornava colombe spettacolari e i miei genitori le comperavano lì, anche se il papà per tradizione preparava sempre la torta di pastafrolla con la marmellata. Da buon fornaio, poi, non faceva mai mancare in tavola la treccia di pane, che preparava appositamente per Pasqua: la mamma aveva il banchetto al dettaglio vicino al forno, e le vendeva a fette».

Anche a casa di , 82 primavere, la Pasqua era una festa molto sentita, benché la tavola fosse un poco meno sontuosa rispetto a quella di Natale. «Da bambini andavamo sempre dalla mia nonna Adelina, che aveva una bella casa a Bizzozero, con tanto di pollaio: era proprio religione per noi vedere a tavola a Pasqua la gallina e tutto il suo prodotto. Facevamo una festa incredibile con tutti gli zii e i cugini e la cosa che mi piaceva da morire era osservare la nonna mentre preparava il pranzo. Prima di tutto, al mattino, usciva sul campo e raccoglieva la cicoria fresca, fine fine, che poi faceva il letto dell’insalata e ciapp. Ma le uova sode le preparava anche in un altro modo che io ho sempre amato e ho voluto continuare a fare per i miei figli e faccio ancora per tutti i nipoti: le rassodava, le faceva raffreddare e poi, con grande delicatezza – ed era una cosa che poteva riuscire solo a lei – le sgusciava senza romperne o toglierne nemmeno un pezzettino. Lavorava quindi il tuorlo con l’acciuga, un pochino di burro e di senape (poca, giusto per dare il saporino) e poi con questo composto farciva le mezze uova, le ciapp insomma: infine, con garbo, le sistemava in un vassoio pieno di ulivo benedetto della Domenica delle Palme, un ghirigoro di maionese su ciascuna e via, le portava in tavola. Era una preparazione solenne, il rito della nostra tavola pasquale: noi bambini eravamo estasiati, e ancora adesso quando le preparo voglio sempre avere attorno i miei nipoti».

, 66 anni, è la memoria storica di Santa Maria del Monte: il suo bisnonno era il proprietario della Locanda del Moro, aperta dal 1500 in via Beata Caterina Moriggi e i genitori gestivano il bar più antico del Sacro Monte, sempre in via Caterina Moriggi, dal ‘66 spostato in via dell’Assunzione.

«Anche al Sacro Monte la mamma preparava l’insalata e ciapp sulla cicoria, condita con olio, aceto e un poco di erba cipollina. Ma la cosa che mi lega di più alla mia Pasqua da bambina erano i ravioloni primaverili che la mamma preparava con le sue mani. Impastava la sfoglia e ne ricavava dei quadratoni grossi, che riempiva con un impasto di tarassaco e di formaggina fresca che preparavano, allora, le romite del Monastero. Usciva presto per raccogliere l’insalata spontanea:la stufava in padella e poi riusciva a legare i sapori del ripieno in maniera tale che non risultasse proprio per nulla amara: tutt’altro. Poi aveva un segreto tutto suo nel dipingere le uova sode: usava una specie di terra naturale mista ad erbe con la quale colorava anche le penne delle galline per le giromette, ma non saprei proprio dirne la composizione: so solo che pareva magia».