Parla la superteste. «Speravo di sbagliarmi»

Caso Macchi - La testimone dell’accusa ha deposto ieri in aula per otto ore davanti alla Corte d’Assise. Fu lei ad addebitare la paternità della lettera a Binda

«Ho portato quelle cartoline in Questura sperando che mi dicessero ti sei sbagliata. È un errore, non c’è nessun elemento che possa portare a lui».

Patrizia Bianchi, la super teste nel processo a carico di Stefano Binda, 50 anni, di Brebbia, accusato dell’omicidio volontario di Lidia Macchi, la studentessa di 20 anni uccisa con 29 coltellate nella notte tra il 5 e il 6 gennaio 1987, ha deposto ieri per otto ore davanti alla corte d’assise presieduta da Orazio Muscato. Lucida, non si è mai allontanata da quanto dichiarato agli agenti della squadra mobile di Varese, che hanno condotto le indagini coordinate dal sostituto procuratore generale di Milano Carmen Manfredda, già nel 2014.

Quando le indagini ormai ferme da 27 anni ripresero impulso. Bianchi ieri, davanti alle domande del pm Gemma Gualdi, dell’avvocato di parte civile Daniele Pizzi e degli avvocati difensori Patrizia Esposito e Sergio Martelli, ha precisato più volte di non essere mai stata l’innamorata respinta di Binda ma di avere avuto con lui un profondo legame di amicizia. Intimo, esclusivo, Binda con la sua cultura, la sua sensibilità e la sua intelligenza le ha fatto «vedere una realtà diversa, ha gettato i primi mattoncini per la mia formazione».

È stata lei a segnalare alla questura dei sospetti, delle suggestioni, guardando un estate due trasmissioni televisive, Blu Notte e quarto Grado, che si occuparono del caso Macchi. Quattro flash che risvegliarono intuizioni già avvertite subito dopo l’omicidio ma sopite «messe in cassetto» perché in virtù di quel legame di amicizia «non poteva assolutamente essere stato Stefano». In Tv Bianchi vede il luogo dove fu ritrovato il cadavere di Lidia «ricordavo di essere stata 30 anni prima con Stefano in quel luogo (dove un amico di Binda si drogò) e che aveva un nome in dialetto ma non ricordavo quale». Sass Pinì a Cittiglio. «Lo vidi e lo riconobbi». Quindi in Tv dissero che l’arma del delitto non fu mai ritrovata.

«E ricordai quella telefonata che io feci a Stefano il 7 gennaio. Gli dissi che Lidia era stata trovata uccisa quella mattina. E non so perché gli dissi che l’arma del delitto non si trovava – ha detto Bianchi – Ebbe una reazione violentissima, che mi spaventò e che non aveva mai avuto con me prima. Continuava a chiedermi dell’arma del delitto. Se non si trovava. E io pensai: ma perché? Non l’hai mica uccisa tu». Quindi la lettera Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Pavese, trovata nella borsa di Lidia. «Era una delle poesie preferite di Stefano. Iniziammo a parlarne al liceo, quando diventammo amici». E poi quel dettaglio: al Sass Pinì potevano essere in due. «Pensai a Stefano e a Giuseppe Sotgiu, erano inseparabili all’epoca».

E la lettera In morte di un’amica, anonimo recapitato a casa Macchi il 10 gennaio 1987 giorno dei funerali di Lidia (spedita il 9 da Casbeno). «Prima dei funerali Binda mi disse di avere una lettera da consegnare ai Macchi. E io lo ammirai». Lettera che richiamava nel titolo Guccini, uno dei cantautori preferiti da Binda.

Lettera che Bianchi vide nel 2015 pubblicata su un quotidiano locale. «Ebbi modo di osservarla bene e riconobbi la familiarità della grafia con quella di Binda. Ma io non ero nessuno. E portai delle vecchie cartoline speditemi da Binda in questura per un raffronto. Lidia era stata uccisa. Nonostante l’amicizia per Stefano ho agito secondo coscienza come cittadina e come cristiana. Sperando mi dicessero che mi ero sbagliata, che era una mia cretinata. Per me è stato pesantissimo ma l’ho fatto da cittadina e cristiana».