«Sono un Re e per la città penso in grande. Il sogno? Un teatro all’aperto»

Antonio Borgato è stato incoronato quest’anno sovrano del Carnevale e ci svela chi è e come governerà. «L’italiano esprime un concetto, il dialetto un sentimento: è un patrimonio ma rischiamo di perderlo»

– Fino a sabato prossimo le sorti della città di Varese sono nelle mani del Re Bosino, . Succeduto a , Borgato è un ingegnere-artista. Sposato con , è padre di e ed è nonno della piccola , di un anno. Borgato ha una vera passione per il risotto (cucinato alla bosina) e per il dialetto.

La prima cosa che vorrei fare, se potessi, è rifondare il teatro di Varese – dice Borgato, accettando di rispondere alle domande di questa intervista semiseria – Proporrei di farlo all’aperto, in piazza Repubblica. Un luogo che si presterebbe all’organizzazione di concerti e i ritrovi. L’Apollonio non mi piace, anche se ci ho recitato.

A dir la verità sono di madre lingua “venesian”. Mio padre di Vicenza è arrivato a Varese negli anni ’20. Aveva sei anni e ha imparato il dialetto di qui per via degli amici e della scuola. Mia madre, di Padova, con i parenti parlava in veneto, ma in casa entrambi i miei genitori si sforzavano di parlare italiano.

L’ho compreso dall’inizio, ma ho iniziato a parlarlo verso i 40 anni quando ho cominciato a frequentare la compagnia oratoriana “i giuin di una volta” di San Fermo. Io e mia moglie Lidia, successivamente, ci siamo inseriti nel gruppo teatrale della Famiglia Bosina e abbiamo messo in scena le commedie del Pertini e del Montonati. A me interessano le lingue in generale, ho scritto un vocabolario digitale di dialetto per uso personale (per ora).

Il dialetto è pieno di espressioni che non si possono rendere in lingua italiana. Un conto, infatti, è fare traduzioni e un altro è parlare in dialetto. Se l’italiano comunica un concetto, il dialetto esprime un sentimento in modo più diretto.

Come dicevo, sono cresciuto in quella generazione per la quale parlare dialetto era “da paesanotti”. Sono contrario all’idea di insegnare il dialetto a scuola. Ma negli anni ’20, prima che entrasse in vigore la riforma Gentile, i testi che si usavano alle scuole elementari, in particolare a Varese, riportavano proverbi anche in dialetto. Questo perché i bambini che andavano a scuola, fuori dai banchi, parlavano in dialetto. Gli scolari erano costretti a parlare in italiano davanti alla maestra, prendendosi anche uno sganassone se, per sbaglio, si esprimevano in dialetto. I libri di testo riportavano i proverbi, che sono la cultura della civiltà contadina di anni fa. La gente usava i calendari, la quotidianità era scandita da proverbi e santi. Questo era un modo per tramandare la memoria. Oggi si rischia di perdere questo patrimonio.

Sabato, per l’apertura del Carnevale, mi sono emozionato moltissimo. Casualmente ho la stessa statura di Natale Gorini e mi va bene il costume che il mio predecessore ha indossato da quando ha assunto la carica, nel 1993.

Come dicevo, sarà un discorso non cattivissimo, che andrà nel segno della continuità con Gorini. Parlerò degli eventi che hanno interessato la città nell’anno passato. Nel discorso di sabato citerò Piazza Repubblica, per quanto riguarda le cose che non vanno. Il teatro resta un sogno nel cassetto.