VARESE Sono passati dodici anni: dodici anni giusti da un giorno ingiusto. Da quando il buio più nero si portò via, sull’autostrada del Sole all’altezza di Piacenza, il sorriso di Chicco Ravaglia. Uno di noi, entrato di prepotenza nel cuore dei tifosi biancorossi anche se la maglia di Varese l’aveva vestita solo per una stagione, quella 1995/1996. Vogliamo ricordarlo così: con le parole di quello che di Chicco
è stato uno dei più grandi amici. Gianmarco Pozzecco, che dopo quel giorno non riuscì più a sorridere come prima. «E come facevi – racconta – a non volergli bene? Non ho mai conosciuto nessuno che mi abbia parlato male di Chicco. È vero che solitamente si parla sempre bene di chi non c’è più, ma con lui è diverso: Chicco conquistava tutti con il suo sorriso».
Aneddoti.
Settembre 1995: Chicco passa da Bologna a Varese e mi chiedono di andarlo a prendere all’hotel Palace per portarlo al primo allenamento. Siamo in macchina io e Teo Panichi, e carichiamo ‘sto ragazzino che si mette seduto dietro e di colpo mi dice: “Pozzecco, mi sa che quest’anno te farai della gran panchina adesso che sono arrivato io”. Io ho inchiodato la macchina, l’ho guardato fisso negli occhi, e storpiando il suo bolognese gli ho lanciato un “Mò và a caghèr”. Ma in quel momento mi aveva conquistato.
Poi lui giocò davvero molto: al posto di Pozzecco.
Per forza, mi feci male subito e saltai la stagione. Lui giocò tantissimo e giocò bene, ma si sentiva in colpa: dopo ogni vittoria io e lui ci abbracciavamo, ma sentivo che lui non era del tutto felice. Perché quei minuti in campo avrebbe voluto conquistarseli da solo, e non grazie al fatto che io mi ero spaccato.
Perché siete diventati così amici?
In comune avevamo il seme della follia, affrontavamo la pallacanestro allo stesso modo e non ci prendevamo troppo sul serio. Lui si fidava di me, ascoltava i miei consigli: al termine di quella stagione gli arrivò l’offerta della Virtus che se lo voleva riprendere. Lui tentennò perché a Varese stava bene e voleva giocare, e fui io a convincerlo a tornare a Bologna.
E fece bene…
Quello era uno squadrone, ma riuscì a ritagliarsi il suo spazio. Vinse una coppa Italia giocando una finale strepitosa e al termine di quella partita, in diretta tv, mi dedicò la vittoria.
Quel giorno.
Mi chiamò tre giorni prima della notte maledetta, il venerdì. Lui giocava a Cantù e avrebbero affrontato Reggio Emilia, noi andavamo a Reggio Calabria: se loro avessero vinto e noi perso, ci avrebbero superato in classifica.
E…?
Io stavo dormendo: suonò il telefono e senza pensare risposi. Mi sfotteva canticchiando: “E domenica avremo più punti di voi, e noi siamo più forti”. Io volevo continuare a dormire e gli lanciai quello che ormai era diventato il nostro insulto preferito: “Mò và a caghèr”. Poi attaccai il telefono. Avessi saputo che era l’ultima volta che lo sentivo, gli avrei detto che gli volevo bene.
Chicco Ravaglia, oggi.
Se fosse ancora tra noi, sarebbe un giocatore fortissimo. E soprattutto sarebbe un personaggio che avrebbe fatto bene al nostro basket. Penso a lui e alla sua morte, e mi viene in mente quella di Simoncelli: due personaggi simili nell’affrontare la vita sorridendo, che se ne sono andati facendo quello che amavano di più.
Francesco Caielli
a.confalonieri
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