«La vicenda che abbiamo di fronte ci ha colpiti profondamente. Sia perché coinvolti a livello penale e disciplinare, sia perché l’umano dolore ci ha paralizzati».
Quattro ex colleghi di , con lui coinvolti nelle questioni processuali e soprattutto disciplinari considerate movente dell’accaduto, spiegano dall’interno il clima, l’amarezza, dell’epilogo della vicenda: sono , , e . «Nulla può giustificare la violenza, in qualsiasi forma essa si manifesti, ed il pensiero per le vittime “immediatamente visibili” di tale azione è unanime e rivolto alla loro pronta guarigione».
I quattro, però, spiegano qualcosa che è poi la chiave di volta della vicenda. Di quel raptus che ha spinto il vigile sospeso a sparare al sindaco Laura Prati e al suo vice Costantino Iametti: «Anche tutti noi ci siamo sentiti vittime in questa vicenda, perché, per dirla cone quale Pegoraro ha risposto al magistrato che lo interrogava dopo la cattura, riteniamo di aver subito un’ingiustizia: summum ius, summa iniuria». Letteralmente: somma giustizia, somma ingiustizia. «Questo – proseguono i quattro colleghi – è il sentimento che ha pervaso quanti tra noi abbiano subito non tanto una sentenza penale pesante, ma contenente anche molteplici assoluzioni, quanto più la procedura disciplinare che ne è seguita». E su quest’ultima i quattro si soffermano: «L’uomo che martedì ha sparato non si può liquidare semplicemente come un soggetto deviante, o un violento tout court: egli, come noi, è un individuo schiacciato da un imponderabile senso di ingiustizia subita e che, purtroppo, sta ancora subendo con il disegno di personalità violenta che Pegoraro non ha mai avuto o almeno non ha mai manifestato. E che ora si trova a subire ancora con accuse, mai denunciate prima, come quella contenuta ella dichiarazione dell’ex sindaco di Cardano di una fantomatica minaccia con l’arma di ordinanza risalente a un periodo non meglio precisato».
Mascheroni, Di Bari, Salvato e Andorno proseguono: «Il nostro collega è un uomo che ha dato un’impronta alla vita scegliendo gli studi liceali – spiegano – La passione per il latino, studi e pratica forense all’inizio della carriera, e poi la divisa della polizia locale che era la sua seconda pelle. La sentenza penale, appellata da Pegoraro come da noi, lo vedeva condannato non per truffa: la sanzione disciplinare, viceversa, lo sospendeva e gli toglieva la divisa per essere stato condannato per truffa, come è poi stato falsamente diffuso dai media». I colleghi spiegano come Pegoraro abbia subito il proprio destino giudiziario senza eccepire, ricorrendo alle vie legali.
«È stato l’iter disciplinare – spiegano i colleghi – a destare senso di disperazione, perché la pubblica amministrazione, ignorando lo scopo e il fine della procedura sanzionatoria amministrativa ha utilizzato il potere conferito alla propria commissione non per correggere i propri dipendenti, ma per infierire applicando condotte escluse dal processo penale e per le quali anche il pm aveva chiesto l’assoluzione». I colleghi spiegano: «Certamente quest’ultima terribile fase dell’iter disciplinare deve aver lasciato Pegoraro come un naufrago sprovveduto sulla riva del mare. Il problema – concludono – non è di stabilire se sia stata applicata la legge, ma se l’applicazione della legge sia stata corretta: non possiamo fermarci a osservare la superficie di un lago le cui acque non siano attraversate almeno da uno spiraglio di luce».
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