C’era il 13 giugno 2010 con quella finale Mundial vinta sulla Cremonese, o il 13 giugno 2014 (la folle salvezza di Pavo-gol e del Betti), e c’è il 28 aprile 2015: è la storia del Varese, «cinque anni in paradiso e poi subito all’inferno senza ritorno e senza nemmeno passare dal purgatorio». Pianeti in perfetta asse con il diavolo quando un attimo prima erano satelliti di dio: coltello o carezza, lacrime di gioia o dolore, a volte tutto insieme, anzi tutto o niente, prendere o lasciare: la tortura o l’estasi, mai la via di mezzo, è anche il marchio che rende unica e impossibile da non amare questa squadra.
Oggi, mentre il Varese potrebbe tagliare il traguardo di un’epocale retrocessione – la quarta dalla serie B in 105 anni: accadrà se i biancorossi otterranno un risultato peggiore del Crotone che ospita l’Avellino, o nei casi che riassumiamo a lato -, Antonio Rosati ed Enzo Montemurro usciranno probabilmente a metà giornata da San Vittorie dopo sei mesi meno un giorno di prigione. Qui tutto era, è e sarà sempre scritto, anche nel caso dell’ex presidente (il più vincente dopo Borghi: così c’è scritto sugli almanacchi e nemmeno bruciandoli potrà essere cancellata questa verità) e dell’ex direttore generale-amministratore delegato, ruolo quest’ultimo rivestito con pieni poteri anche nel primo anno della crepuscolare era Laurenza, e non certo per volontà di Rosati.
Ad attendere gli ex massimi dirigenti del Varese, che entro la scadenza dei sei mesi dovevano per forza essere rilasciati non avendo mai voluto patteggiare perché sicuri di andare a processo ed essere assolti (l’accusa è associazione a delinquere finalizzata al compimento di reati tributari per 63 milioni di tributi non versati) ci saranno le rispettive famiglie, a
cui nessuno può avere augurato del male. Da Eleonora a Paola e Pamela, da Giovanni e Vittorio ai tre figli (due gemelle) di Montemurro: le loro vite meritano di ricevere l’abbraccio di un marito o di un padre “scomparsi” in un braccio di San Vittore. La giustizia ha fatto e farà il suo corso: l’umanità deve fare altrettanto.
In attesa dell’udienza preliminare e del processo – che può iniziare anche tra anni – dove le accuse dovranno essere provate o confutate, restano i fatti: Rosati e Montemurro hanno pagato e forse pagheranno ancora, o forse no, ma da oggi saranno liberi di andare dove vogliono, persino all’estero o allo stadio, di parlare con chi vogliono, di riprendere a vivere, anche se sarà difficile farlo da persone normali.
Come può sentirsi oggi un uomo come Antonio Rosati dopo sei mesi dietro le sbarre di San Vittore, le aziende sotto sequestro e una sola visita dei figli in un giardino “protetto” del carcere? Ce lo chiediamo da uomini, non da giornalisti né da giudici o avvocati di nessuno. Nelle partitelle tra italiani e marocchini, lo immaginiamo arbitro. E lo immaginiamo pure impegnato a persuadere gli sconfitti a ottemperare l’obbligo delle flessioni punitive, lui che era ormai il detenuto con più “anzianità”.
Ma può uscire lo stesso uomo, o un uomo diverso, dal braccio in cui sono transitati in questo periodo il ghanese Kabobo, che uccise tre persone a Milano con un piccone, o Alexander Boettcher, lo sfregiatore dell’acido insieme a Martina Lovato?
Può perfino uscire un uomo migliore, avrà sicuramente pensato Rosati, se ancora lo conosciamo bene. Che, forse, avrà potuto finalmente correre tutti i giorni sui campetti a 7 del carcere – qui non aveva il tempo, né la voglia, di farlo – o cucinare ai fornelli di quelle celle dove non si vive mai in meno di due, e più spesso si arriva a sei. E dove i muri, anche dell’anima, risultano così spessi da accettare qualunque muro contro muro, nella convinzione di dimostrare la propria innocenza.
Tra un pensiero ben più serio e l’altro, non sarà mai mancata una copia della Gazzetta, o perfino della Provincia. E sicuramente non sarà mancato il Varese. Che alla fine è sempre la causa – o la conseguenza? – di tutti i mali.