Giù le mani da Pozzecco. E da Vescovi

Due figuracce non sono la fine del mondo: “La Provincia” resta sulla barca in tempesta con i marinai.- Coach, le ferite aiutano. Criticare Cecco? Ridicolo. Piuttosto non abbiamo capito le sparate di Coppa

La gente che s’arrabbia e fischia se si perde con Capo d’Orlando e Pistoia fa bene ad arrabbiarsi e a fischiare. Dire “noi siamo Varese” è un modo per tenere in vita l’impossibile e cioè sentirsi ancora oggi, nel 2015, la squadra delle dieci finali di Coppa dei Campioni e dei dieci scudetti. Se non ci fossero fischi e incazzature, il senso della storia e quel velo di leggenda che ha il difetto di trasformare due puntini neri in tragedie, ma il pregio di farti ricordare appunto che sei una… leggenda, scomparirebbero dalle nuove generazioni, che in fondo, se va bene, hanno vinto uno scudetto sfiorandone altri tre negli ultimi trent’anni.

A Treviso e Siena o alla Fortitudo, ma anche nelle crepuscolari Caserta e Pesaro, troppo moderne (o post-moderne) e liquide nelle loro vittorie legate a brevi ma fragorose età dell’oro, la pallacanestro non esiste e non esisterà mai come “religione”. Qui è tutta un’altra cosa, seria e penetrante: più s’allontana nel tempo, più il mito della Pallacanestro Varese ringiovanisce, rischiando di travolgere tutto e tutti, ma il sangue che scorre veloce è un segno di vita finché non chiama altro sangue al primo o secondo rovescio.

Siamo retrocessi, quasi falliti ma vivi (chissà chi le ha ricostruite quelle squadre, eh?) ma sono bastate due Caporetto in una stagione che fino a tre giornate fa sembrava una passerella trionfale anche nelle sconfitte (ah, che errore…) per udire il rumore dei manganelli avvicinarsi a Pozzecco, a Vescovi, ai giocatori. Uno non è un allenatore, l’altro non è un dirigente, gli ultimi sono brocchi. Chi lo dice e lo pensa o è in malafede, o è un perdente perché non l’ha pensato o non l’ha detto quando doveva farlo: prima, e

non dopo. A settembre, non a gennaio. Se sali sul carro a inizio stagione, ci resti fino alla fine (vale anche per i dirigenti, tutti, e per il coach). E fino alla fine significa anche in caso di retrocessione. Così si fa a Varese, altrimenti tifi Milano (undicimila al Forum a fare passerella, duemila al Palalido quando c’era da sporcarsi le mani nella sofferenza): si vive assieme, si muore assieme. Anche perché, se tra due settimane vincessero a Cantù (Poz può farlo, Varese può farlo), i pirla di questi giorni tornerebbero eroi.

Il problema è che non sono né pirla, né eroi ma uomini che sbagliano, si perdono e poi ritrovano la retta via. Ridicolo dare patenti di nullità o mediocrità a questo o quel giocatore, a questo o quel dirigente, a questo o quel coach: da Green a Clark o a Robinson e Deane, da Dunston ad Hassell (Johnson)e Daniel, bisogna vedere quanti soldi hai, e se ne hai pochi una volta la scommessa la vinci, quelle dopo le perdi: non per questo butti nel cestino un’intera società. C’est la vie: siamo una leggenda, ma Reggio Emilia e Venezia (e altri otto club) hanno conti in banca più “leggendari” dei nostri.

Non capiamo questa sventagliata di commenti da fine del mondo, questo dare del bidone o del fallito, l’impazienza che nasconde l’incapacità di soffrire, e magari morire, assieme.

Non capiamo le dichiarazioni da ultimatum alla squadra del presidente Coppa dopo Capo d’Orlando: ha dato l’impressione di dare in pasto alla folla affamata alcuni dei “suoi” contestati giocatori, invece avrebbe dovuto difenderli in pubblico e, se voleva, bastonarli in privato. Il gruppo è uno, unico e delicato, nei momenti difficili non ci sono pecore nere o bianche, tanto il campo alla fine darà comunque il suo verdetto inappellabile. Ma alla guerra ci vai difendendo tutti i tuoi soldati, morendo persino al posto loro se tu sei il generale. Altrimenti sono loro i primi a mollare, o inconsciamente a tradirti.

Non capiamo le ultime dichiarazioni di Pozzecco: farsi da parte, passare ad altro incarico? Essere duri e spietati con se stessi, ora, non serve. Serve cattiveria, non bontà. Carattere, rabbia, rivincita. Tutto il contrario rispetto al pensiero di lasciare.
Tu non vai da nessuna parte, Poz.

Ci porti fuori dalla tempesta diventando più forte di quello che eri quando ci sei finito dentro (e ringrazia queste sconfitte, sono la sfida più grande che ti potesse capitare). Di più: al tuo posto ci resti fino all’ultima partita in casa con Vitucci (ultima di stagione regolare, perché dopo ci saranno i playoff), vincendola pure. Recalcati su questa panchina ne perse sei di fila, di cosa hai paura?
Qui nessuno va da nessuna parte, se non a giocare ad Avellino: la barca va giù, e noi andiamo giù assieme.

E veniamo a Cecco Vescovi. Ha salvato la Pallacanestro Varese insieme a Max Ferraiuolo, in giro in macchina da soli a trovare qualcuno che ci credesse almeno la metà di quello che ci credevano loro. Ha sempre costruito squadre, tranne l’anno scorso, che in classifica sono arrivate più avanti di molte altre che erano costate più del doppio. Migliorando sempre (a parte un anno fa) il risultato della stagione precedente. Al massimo Vescovi non si sa vendere perché è musone e magari non ride mai (i pagliacci che ridono sempre, tanto, già abbondano).
Cecco per anni ha accettato di fare il presidente prima perché serviva la sua faccia, poi perché nessuno voleva farlo. Costruiva la squadra, guardava i bilanci, difendeva la bandiera. Chissà perché tutti i presidenti, allenatori e giocatori avversari hanno avuto in comune sempre questa frase: «Di Varese invidiamo Cecco, la sua serietà, la sua onestà, la sua competenza». Ha fatto degli errori? Come no, ma molti meno di quanti ne avrebbe fatti chiunque altro al posto suo. Non solo: li ha sempre ammessi, a differenza dei meriti. Cosa rara, se non impossibile, a Varese e in Italia.