«Quei giornalisti sono morti perché liberi»

Yakhouba Diawara, parigino delle banlieue e musulmano: «Mamma mi ha detto “la città si è fermata”. Gli estremisti seminano panico. Non bisogna avere paura di loro»

Ieri pomeriggio era al PalaWhirlpool, come sempre, a lavorare insieme ai suoi compagni di squadra della Openjobmetis. Ma quella di ieri è stata forse la giornata di allenamenti più difficile di sempre per Yakhouba Diawara. E una volta tanto lo sport, le sue vicende e le sue tensioni non c’entrano davvero nulla.

Kuba è un cittadino francese, di fede musulmana. A Parigi è nato, il 29 agosto 1982, e nella capitale francese ha vissuto l’infanzia e parte dell’adolescenza, insieme alla mamma e ai fratelli, che ancora là risiedono.
Inevitabile che un dramma come l’assalto terroristico contro la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, costato la vita a 12 persone (fra cui il direttore del giornale e i suoi principali vignettisti), tocchi tanto da vicino il campione biancorosso.

«Io credo innanzitutto che, nel mondo libero in cui viviamo, ognuno dovrebbe poter esprimere le proprie opinioni, senza morire per questo» esordisce Diawara.
E invece quella del Charlie Hebdo è una storia di minacce, intimidazioni e attentati iniziata già da qualche anno, per via di alcune vignette satiriche su Maometto, ritenute blasfeme dall’estremismo islamico. «Ma quei giornalisti, nonostante tutto, continuavano a fare il loro lavoro, senza paura – aggiunge Kuba – È terribile quello che è successo».
Diawara ricorda come l’attentato si inserisca in una lunga scia di sangue, iniziata nel 2001 con le Torri Gemelle e proseguita fino ai giorni nostri, fino a ieri, a quei minuti di terrore e sangue, in Rue Nicolas-Appert. «E da musulmano io dico che tutto questo non può che far male all’Islam, perché l’estremismo è un qualcosa che riguarda solo una parte di coloro che appartengono a questa religione, ma eventi di questo genere inducono purtroppo a generalizzare, a ritenere che la fede islamica sia esattamente questo, per tutti coloro che la professano. Ma non è così, ovviamente».

Parole sincere, di un ragazzo che ieri ha ovviamente contattato subito la famiglia d’origine, a Parigi, per avere ragguagli e informazioni. «Mamma mi ha raccontato che, per via del panico che l’evento ha suscitato, ieri in città ogni attività si è fermata, tutto è stato chiuso. Anche le scuole che frequentano i miei nipoti, i figli di mia sorella Fatoumata».
Non facile l’infanzia vissuta da Diawara nella banlieue di Tremblay, quartiere disagiato alla periferia di Parigi. Ma il ricordo che Kuba conserva di quegli anni è comunque all’insegna di quel sorriso che sempre illumina il suo volto. «Parigi per me è la più bella città del mondo – afferma – Una città speciale, in cui uomini e donne provenienti da ogni parte del pianeta vivono insieme, serenamente. Purtroppo, attentati come quello verificatosi ieri rischiano di seminare il panico e dividere le persone».

Menomale allora forse che c’è il basket e la sua quotidianità, fatta di ore di fatica in palestra, a distrarre la mente da certi orrori, anche se non è certo facile pensare allo sport quando nel mondo che ci circonda avvengono fatti di questa portata.
«Ma in squadra vedo volti più distesi e un clima migliore – sottolinea Diawara – Domenica abbiamo fatto davvero una partitaccia e ora ce ne aspetta una certamente difficile, ma noi dobbiamo andare ad Avellino convinti di poter fare il nostro, con tutta la grinta necessaria, perché noi siamo la Openjobmetis Varese e quello è il nome che portiamo addosso, tutti quanti. Non il nostro, personale, che abbiamo sulla schiena».

Crederci e lottare, tutti uniti. «La Coppa Italia è sfumata, ma i playoff sono a 4 punti: Avellino è ottava, se la battiamo poi avremo solo una partita da recuperare per rimetterci in corsa».
E guai a pensare di farsi da parte. «Il nostro coach deve stare esattamente qui dov’è – conclude Kuba – Così come io ho scelto di dire no al Galatasaray, il Poz non se ne deve andare da nessuna parte».