Ci sono le sorprese, ogni tanto, e poi c’è Milano. Perché come dice Toto Bulgheroni, «il basket non come il calcio, è una scienza più esatta, quindi alla fine chi è più forte vince». Onore al cuore di Avellino, applausi all’organizzazione di Cremona, inchini alla solidità di Trento, ma in fin dei conti Milano è la più completa, la più ricca, la più forte ed in quanto tale ha vinto. Doveva pur succedere, Milano aveva terminato le modalità per gettare alle ortiche un’altra Final Eight ed è accaduto che sia riuscita a vincere venti anni dopo quel 1996 in cui sul parquet ci andavano Sandro De Pol, Nando Gentile, Flavio Portaluppi.
E’ stata la Final Eight delle sorprese, delle piccole al potere, della ribalta degli underdog. Alla fine però ha vinto Milano, e ogni discorso quasi si annulla. Coach Stefano Michelini era in cabina di commento su Rai Sport assieme ad Edi Dembinski, e la finale l’ha vista così: «Parto da una considerazione: prima dell’inizio della partita, spulciavo le statistiche delle prime due gare di Milano contro Venezia e Cremona, mi sembrava che Repesa avesse il karma giusto per vincerla, contro qualsiasi avversario gli si parasse davanti. Ha impostato la gara sull’idea di pressare, correre e prendersi tanti tiri, ruotando parecchi giocatori, scegliendo una guardia in più e mandando in tribuna due centri. Quella di Milano è una vittoria meritata, perché le scelte di Repesa sono state premiate in un crescendo impressionate di singoli e gruppo».
Nella vittoria di Milano non c’è nulla di nuovo, eppure nelle Final Eight del Forum di Assago sono emerse tante sorprese, a partire da Avellino passando per Cremona e Trento. Michelini le giudica così: «Oggi è difficile riuscire a dire quali sono le piccole e quali le grandi. Milano è un gradino sopra, e tutte le altre dietro c’è un equilibrio sostanziale. Mi preme però una cosa: continuo a sentire e a leggere che ci troviamo in un campionato in cui il livello va sempre più verso il basso, però questo equilibrio è così bello che non riesco a capire come si faccia a stabilire
che il livello sia diminuito». Andiamo con ordine però: «Cremona è così avanti perché c’è chiarezza nei ruoli, perché ha un forte nucleo di italiani e perché ha l’esperienza di un marinaio di vecchia tolda come Pancotto che ha dato degli equilibri precisi. Avellino invece ha permesso a Sacripanti di avere una squadra competitiva grazie ad Alberani e ad investimenti importanti. Pino è un allenatore esperto ed intelligente, e l’asse portante Green-Cervi è una garanzia interessantissima. Infine Trento, che spicca per lungimiranza del progetto, con un bravo allenatore e tanti italiani di qualità. C’è fiducia in Buscaglia ed una costante spinta a far sempre meglio».
E come mai Varese non è mai entrata in corsa per queste Final Eight? «Varese, come la Virtus Bologna che rischia di andare giù, vive schiacciata dalla pressione di un passato glorioso che ti abitua a stare ad un livello molto alto. Credo che questa Varese paghi soprattutto la fretta ed il mercato sempre aperto, che ti costringe a cercare sempre nuovi giocatori e soluzioni diverse, cambiando di continuo e non trovando mai stabilità. Le aspettative sono sempre alte, però se diamo un occhio ai numeri, dopo l’anno di Vitucci si sono alternati cinque diversi allenatori sulla panchina di Varese in due stagioni e mezza e Vescovi si è dimesso. E’ un segnale del fatto che non c’è continuità e non ci sono idee chiare, e ad esempio non credo che Alberani, che sta facendo cose egregie ad Avellino, potesse far meglio di Arrigoni in questo contesto».