Ormai non è più una sorpresa nel panorama del basket, anche se fa sempre comodo poterla etichettare così. In realtà parlare di Trentino oggi significa toccare una delle realtà più importanti e in salute della palla a spicchi italiana, il cui segreto (forse uno dei tanti) è quello di avere un “Cast” di grande successo alle spalle.
Il termine sembra cinematografico ma non lo è. C.a.s.t sta per “Consorzio Aquila Sport Trentino” ed è l’omologo dolomitico di Varese nel Cuore, la famiglia di piccoli proprietari che da quasi sei anni regge le sorti della Pallacanestro Varese. Il nostro viaggio odierno va alla scoperta di un’entità che proprio da Varese ha preso esempio nel vedere la luce, ma che dal modello “prealpino” si è discostata, costituendone una sorta di evoluzione.
Le premesse sono quelle di una travolgente crescita, societaria e sportiva, nel ventunesimo secolo. L’Aquila basket nasce nel 1995, dalla fusione di due realtà cestistiche locali voluta da Gianni Brusinelli e Marco Angelini.
Nel 2000 è ancora in serie D, poi infila un’escalation di risultati che la portano addirittura in Lega 2 nell’anno di grazia 2012. A quel punto si pone un problema: «I vecchi soci si resero conto dei limiti che aveva il modello seguito fino a quel momento – ci spiega Stefano Sosi, oggi presidente del C.a.s.t – e decisero di varare un progetto che potesse riunire le aziende del territorio».
Un po’ quello che successe nel 2010 nella Città Giardino, non a caso presa a modello: «I contatti con la dirigenza varesina furono tenuti dal nostro gm Salvatore Trainotti – continua Sosi – e so che i nostri rappresentanti vennero pure a Varese per capire come funzionavano le cose».
Illustrate le basi, è ora importante capire come Trentino si sia evoluta dallo schema che abbiamo ai nostri lidi. Oggi il C.a.s.t è un organismo che raggruppa una cinquantina di aziende, numero che è cresciuto costantemente a partire dal primo anno (prima differenza con Varese) e che è destinato a corroborarsi ancora di più nel futuro: «Sono in tanti a voler entrare – conferma l’attuale numero uno – Tanto da dover operare una certa selettività basata sulla serietà aziendale e sul riconoscersi nell’etica sportiva che l’Aquila vuole rappresentare. Cerchiamo poi di seguire uno schema di multi-settorialità, accettando non più di una o due aziende per settore merceologico».Seconda differenza: al fianco dei piccoli
proprietari l’anno scorso è nata la Fondazione Aquila Basket. Cos’è? «E’ la schiena patrimoniale del nostro progetto. Se il C.a.s.t è la benzina che ogni anno ci serve per muoverci, la Fondazione è l’indispensabile motore della macchina. Oggi detiene il 20% delle quote societarie ed è stata creata per permettere il coinvolgimento degli enti pubblici e di tutti quei soggetti privati che non sono imprenditori o che vogliono dare un contributo diverso rispetto alla quota consortile. Ha un ruolo di garante anche per il futuro: è chiaro che i risultati sportivi ottenuti negli ultimi anni abbiano galvanizzato l’ambiente e dato una mano, ma l’Aquila dovrà sostenersi anche nel caso di una retrocessione».
Terza differenza: il restante 40% delle quote è in mano a un Trust, anch’esso creato nel 2015 e raggruppante i tifosi della squadra, che vi aderiscono con una quota che va dai 25 ai 50 euro in cambio di una serie di benefit. È una sorta di “Sostenitore +”, la formula lanciata a Varese con le campagne abbonamenti, però istituzionalizzata e dai numeri convincenti (700 i soci attivi). C.a.s.t più Fondazione più Trust costituiscono solo una parte delle fortune di un club che ha saputo anche attirare sponsor importanti del calibro di Dolomiti Energia, Melinda, Cavit e, recentemente, Deutsche Bank.
Ma tutto questo interesse imprenditoriale è solo passione per il basket, ovvero la molla che a Varese è catalogata come il vero traino dell’appartenenza al Consorzio, oppure ci sono anche questioni di business a fungere da calamita per le imprese? «Alla base c’è la volontà di cogliere un’opportunità – spiega e conclude Sosi – Quella di potersi rapportare con le altre aziende e di abbattere le barriere della riservatezza tipiche della nostra gente, con vantaggi non solo in termini di affari.
Il C.a.s.t è diventato una sorta di “salotto buono” dell’imprenditorialità trentina, in cui si prescinde dalla categoria e ci si relaziona alla pari. Solo in un secondo tempo subentra la passione, che arriva a identificarsi anche con i valori positivi trasmessi dal basket, qui percepito come un vero sport per tutta la famiglia».