Stefano Ferrè stavolta l’ha fatta grossa. E così, mentre i trenta tifosi del Varese ripartivano sui loro pulmini e chissà se a quest’ora saranno tornati a casa (questo punto che non basta a racchiudere tutta la volontà di non morire che c’è dentro, è per loro), il buon Ferrè faceva scappare definitivamente dal petto il cuore grande della squadra per consegnarlo a tutti noi, pubblicando su Facebook i
messaggi di Leonardo Capezzi e Martino Borghese. «Avanti… avanti – ha scritto Leo, il destino nel nome – un pensiero a te, Direttore. Porti un nome da guerriero, ti aspettiamo presto» (#ForzaSpartaco #più fortediprima). E Martino cuor di leone: «Un punto dedicato a NOI staff, giocatori, società, tifosi e a tutti coloro che lavorano per non fare mancare nulla al Varese. Ma è un punto soprattutto per Spartaco».
Rintracciando e pubblicando queste parole, Ferrè ha capito tutto. Ha capito che dentro quel pallone che non voleva saperne di entrare nella porta del Varese c’era un uomo che, lottando e pensando al Varese in un letto d’ospedale, ha trasportato questa sua lotta e questo pensiero a 800 chilometri di distanza.
La voglia di vivere e tornare al suo posto ha valicato le montagne, superato tutti i mari, volato sopra le città per incastrarsi alla perfezione nelle persone che hanno ancora un pezzetto d’anima e di cuore libero per accoglierle. E nel Varese queste persone sono tante, forse tutte. Sono così tante e hanno così tanto cuore, e anima, da avere eletto un comandante lontano. Il comandante Spartaco: guidò la
rivolta degli schiavi (l’Avellino era convinto di vincere facile, quasi arrivasse al Partenio la servitù), alzò la testa dei piccoli (Bettinelli è stato premiato perché ha sfidato la sorte: senza Zecco e Corti, fuori anche Neto e nel ring solo i suoi ragazzi), diede onore ai rifiutati (De Vito ma anche Blasi o Barberis e il piccolo Scapinello finito in panchina) o agli additati (siamo la squadra dei debiti).
E rovesciò il potere, come quello delle corazzate che imprecano alla sorte solo perché potevano fare sei gol al povero Varese, ma non ne hanno fatto nemmeno uno! Dovevate vedere la panchina a ogni parata di Bastianoni, a ogni salvataggio di Rea o Borghese: era come se avesse vinto il Varese. In fondo, ha vinto: perché così si gioca solo se si ama la squadra. Il calcio, ridotto all’osso, non è un passaggio o un’occasione o una triangolazione o un gol in più dell’avversario. Il calcio è come la vita: sorprendente, bastardo, commovente. Ieri il Varese è stato esattamente così. Sette undicesimi dei titolari avevano dai 23 anni in giù e il più giovane di tutti ha scritto la cosa più vera, profonda e scioccante: avanti Leo, avanti Spartaco. Il più piccolo, il più saggio: il mondo (il Varese) è loro.
Indimenticabile quello striscione in vernice verde che si è alzato dalla curva dei Lupi all’intervallo e che diceva: «23/11/80: l’Irpinia piange ancora i suoi figli», seguito dal coro «Non molleremo mai» e poi da un urlo che sembrava uscire dalle tombe dei 2.914 morti del terremoto: «Ir-pi-nia, Ir-pi-nia, Ir-pi-nia». Il pubblico dell’Avellino ha fatto rivivere in un lampo il 23 novembre di 34 anni fa, schiacciandoci sotto l’identità di una terra che, da quel giorno in Italia e nel mondo, non è stata più la stessa, ma migliore. Più forte, invincibile, eterna.