Morosini, dolore e grido dall’antichità

La morte del calciatore Morosini è stata sconvolgente, come tutte le morti che colpiscono i praticanti dello sport e soprattutto i giovani. Quando succede qualcosa del genere, ci si dovrebbe chiudere nel dolore e compatire chi soffre. Sabato scorso non è andata così, nel circo mediatico: recriminazioni e polemiche, assieme a una caterva di ovvietà. Chissà quando, di fronte a una morte, si capirà che c’è una sola cosa da fare: accettarla in silenzio. Il resto, se mai, viene dopo.
Giovanni Vanetti

Il dolore basta a se stesso. Cioè non ha bisogno di spiegarsi. Potremmo dire che è muto, senza con questo far uso d’una locuzione della banalità. Il dolore è senza parole e non ne richiama altre, ma purtroppo accade di regola il contrario. Un dolore intenso, un chiacchierare intenso.
Nel caso di Morosini, anche un chiacchierare a vuoto, com’è solito accadere per la morte degli sportivi, subito in sospetto di controlli medico-atletici scarsi e magari imprecisi. O di attività fisica estrema e ad alta pericolosità. O d’altro che non vale neppure la pena di citare. La storia di Morosini sa più semplicemente di predestinazione, qualcosa in cui si crede dall’antichità e in cui si fatica a credere oggi. Scriveva il poeta greco Eschilo: io grido in alto le mie infinite sofferenze, dal profondo dell’ombra chi mi ascolterà? Anche Piermario Morosini gridava le sue silenziose sofferenze: il padre e la madre scomparsi in poco tempo, il fratello e la sorella disabili. Chissà se qualcuno lo ascoltava o non lo ascoltava nessuno. Gli alleviava il patire della vita o lo gravava della solitudine che viene dall’indifferenza.
Di sicuro quel ragazzo era uno che non si rassegnava, che credeva in se stesso e nel futuro, che indossava la maglia della speranza. Il poeta Ungaretti avrebbe potuto scrivere ch’è morto come le allodole assetate sul miraggio. Talvolta infatti la speranza si rivela un miraggio, anche per le anime leggere come una piuma, che la morte impiomba.

Max Lodi

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