Il nostro Varese non morirà con voi

L’editoriale di Filippo Brusa

Il Varese siamo noi. Noi che dieci anni fa, proprio di questi tempi, eravamo sotto la neve a Spino d’Adda, dove si giocava una partita di Eccellenza e un piccolo campo sembrava uno stadio immenso perché venti ragazzi con le sciarpe biancorosse al collo gridavano: «Torneremo in Serie A». Quel coro, accolto dalle grasse risate del pubblico di casa, suonava surreale ma per un pelo non si è trasformato in reale. Perché il Varese 1910, nato su quei campetti da oratorio, la Serie A l’ha sfiorata due volte: nella finale di tre anni fa persa con la Sampdoria e nella semifinale della stagione prima contro il Padova.

Provate a chiedere a Beppe Sannino qual è stata la partita che si porta ancora nell’anima. Quella che non si dimenticherà mai e che per lui è la migliore di tutte quelle giocate negli anni del suo Miracolo a Varese, dalla Seconda divisione alle soglie della A. Non ci crederete perché a ricordarla fa venire le lacrime al cuore: è il 3-3 a Masnago con il Padova di El Shaarawy, che aveva fatto fuori i biancorossi dai playoff per la A. Nei primi venti minuti di quella gara, i ragazzi di Sannino erano stati perfetti e non avevano sbagliato un passaggio, offrendo una lezione di calcio e portandosi sul 2-0, trascinati dal loro carattere. Anche un pari-sconfitta come questo può diventare il ricordo della vita, quando non si guarda solo al risultato, al traguardo o all’interesse personale ma si pensa prima che con la testa col cuore. Come ha sempre fatto Sannino, che appena ha un attimo di tempo torna a Varese.

Settimana scorsa lo abbiamo incontrato casualmente in un bar del centro e Beppe ha dato lezioni impagabili di umanità: «Se Bettinelli l’anno prossimo andasse ad allenare da un’altra parte e il Varese mi chiamasse non accetterei perché è stonato subentrare a un amico a cui si vuole bene». Allora non vedremo più Sannino sulla panchina di cui è stato eletto «allenatore del secolo»?

Nulla di più sbagliato, come ha confessato il Beppe, uomo vero e puro: «Quando finirò la mia carriera verrò ad allenare il Varese. Non importa in quale categoria. E lo farò gratis: per restituire alla città tutto quello che mi ha dato». Parole da brivido, come quelle che ci aveva fatto sentire sulla pelle salutando Varese: è stato l’Unico ad averlo fatto con la voce strozzata in gola dalla commozione e con un oceano di lacrime vere negli occhi. Gli stessi brividi ce li ha regalati Sean Sogliano, acclamato dalla Curva Nord sabato scorso durante la partita col Livorno, e pronto a lanciarci, in tempi non sospetti questo saluto: «Sì, un giorno tornerò e lo farò a modo mio».

Beppe e Sean sono uomini veri e torneranno perché «è tutto scritto». Sono uomini nel senso pieno del termine proprio come Stefano Bettinelli. Per noi è lui il Varese e non solo considerato in senso calcistico o sportivo. Noi intendiamo il calcio attraverso i suoi valori, di cui parliamo quotidianamente e che non c’è bisogno dunque di ricordare. Anche perché sono gli stessi valori di Beppe e Sean. Gli stessi di questa squadra Unica da 105 anni a questa parte. Se la società avesse le risorse economiche per programmare il futuro e non fosse, oppressa com’è dai debiti, appesa a un filo, con Bettinelli si potrebbe aprire lo stesso ciclo che aveva inaugurato alla fine degli anni Settanta Eugenio Fascetti.

Con Bettinelli il vivaio del Varese potrebbe risplendere e non dimentichiamo mai che il patrimonio principale di questa squadra è da oltre un secolo il suo settore giovanile. Bettinelli sta facendo da solo quello che è un’impresa impossibile, in piazze ben più ricche, per altri allenatori super coccolati. Dà ogni giorno anima e vita allo spogliatoio, tenendolo legato e isolandolo dai problemi dell’esterno. Le critiche tecniche? Potremmo smontarle una per una ma non vogliamo dare importanza a osservazioni nate tanto per aprire la bocca.